Quel giorno di novembre io e Roberta avevamo deciso due cose importanti. Primo, iniziare un percorso spirituale che ci portasse per sempre lontano dalla sofferenza. Secondo, ma di uguale importanza, trovare un sistema per far entrare nelle nostre casse guadagni extra. Volevamo comprare un biglietto aereo che ci portasse lontano, più lontano della spiritualità, dalle nostre turbolenze dolorose.
Eravamo pronte ad entrare nel mondo buddista, prima ancora di esplorarlo. Dopo di che saremmo andate a Melbourne a fare la piadina per Shumacher, in occasione della Formula Uno, nel marzo successivo. Due progetti da “donne che corrono coi lupi”! Ovvero, che galoppano come struzzi col cavallo selvaggio della fantasia e della creatività.
Era il giorno 16 del mese dei morti, una giornata grigia dentro e fuori, quando ci avvicinammo in punta di piedi al meeting Buddista, nel teatro di Borgo Maggiore. Avevamo la curiosità di due adolescenti che vanno al cinema a vedere un film vietato ai minori. Uno spirito trasgressivo. La Robi sosteneva che è una filosofia, “il Buddismo di Daishonin non ha niente a che fare con la religione”. “Questo attenua la mia paura di tradire Don Marco” dico io con un sospiro di sollievo. “Il Budda non è un rivale del nostro Dio” mi dice la Robi. “Budda siamo noi. Questo meeting ci servirà a capire come possiamo manifestarlo nel nostro modo di essere e di stare con gli altri. Per diventare, in sostanza, il Budda che già siamo e che ancora non abbiamo avuto il piacere di riconoscere”.
Mi sembrava di peccare ma era solo un modo di cercare un terreno nuovo dove spargere i semi della mia fluttuante crisi esistenziale. Mosse dalle nostre personali motivazioni, ci incamminammo sotto la pioggia, risalendo la rampa di scale che portava al luogo ‘sacro’.
Da quel giorno di Novembre, umido e malinconico, abbiamo cominciato a recitare il mantradel Sutra del Loto. Il primo desiderio espresso, concordato con la Robi, non è stato ‘Voglio trovare l’amore’ ma ‘Voglio andare in Australia, metter su un chiosco per fare la piadina prima- durante e dopo il Gran premio di Formula uno fra il 1 marzo e il 15 marzo 2004. Allora ci rimbocchiamo le maniche e scriviamo subito una mail al nostro coordinator sul loco. Paolo era là, veterano dell’Australia, cuoco da sempre. Una joint venture era fattibile solo se lui avesse organizzato tutta la parte burocratica. Ma Paolo non ha avuto molta fiducia nelle neo buddiste, si è tolto dalla società prima che le cose potessero rendersi realizzabili. Troppo lavoro, troppa burocrazia, troppa mafia cinese che avrebbe ostacolato il nostro business. Troppo investimento. Era un gioco d’azzardo che le donne che corrono coi lupi avrebbero giocato comunque. Ma il progetto non è partito… E pensare che avevamo già trovato gli sponsors, gli slogan sulle magliette, le varie ricette: piadina Barichello (melanzane, mozzarella origano = $6 cadauna) piadina Shumi (pomodoro, pecorino, basilico = $7). Nella mia testa il progetto era già chiaro: la Robi all’impastatrice, Moreno all’affettatrice, la Manu alla cassa e io creative manager e public relations. Paolo kitchen camping chef, per piadine firmate con lardo di colonnata e peperoncino.
Paolo aveva detto no ma noi continuavamo a recitare il Sutra del Loto. Il Budda dentro di noi ci aveva convinto che gli unici ostacoli nel realizzare un desiderio sono quelli che ci creiamo nella nostra mente. Partendo dalla consapevolezza che solo tre cose sono potenzialmente impossibili: fermare il tempo, evitare la morte, e cercare di farti amare da un uomo che non vuole avere bisogno di te, continuavamo a credere che in qualche modo il nostro progetto si sarebbe realizzato.
Recitammo fino all’ultimo respiro con un unico mantra in testa: Shumi-piadina, piadina-Shumi. Poi, dopo un po’ di tempo abbiamo capito che forse in Australia si poteva andare anche senza la velleità di impiantare un business, magari la piadina l’avrei fatta lo stesso, a casa di qualche amico che avrei incontrato e che mi avrebbe ospitato durante i pellegrinaggi nel ‘downunder’.
La Robi senza la prospettiva del business non sarebbe partita, lei l’Australia l’aveva già vista, anni addietro, dopo aver mangiato uno yogurt fortunato (era stata estratta la sua cartolina che partecipava al concorso ‘vinci un viaggio con Danone’).
Tutto questo film è nato durante una chiacchierata. Una cena tra amici dove a volte ci si ride addosso parlando di cose serie o si ride di cose serie parlandosi addosso. Io quella sera me ne sono raccontate. Ho viaggiato anni luce con la mia fantasia. Dall’antipasto al dolce, tra una pietanza e l’altra, vagavo con la mia prolifera immaginazione senza sosta: in tre ore avevo già fatto mille piadine a un numero infinito di immigrati in attesa del Granprix, incassato la bellezza di $6.500,00 ( 500 piadine Shumacher e 500 piadine Barrichello). E solo durante le prove mi ero guadagnata tutte le spese di viaggio……
Qualche giorno dopo incontro Giuseppina, una buddista seria. Con lei comincio a recitare un altro mantra: Australia comunque – comunque Australia. E siccome anche lei, per pura coincidenza, aveva programmato un viaggio nel ‘downunder’, decidemmo di partire insieme, senza preoccuparci sul livello di compatibilità dell’accoppiamento (il solo fatto che a me piace il monte e a lei piace il mare presentava uno squilibrio, ma superabile per due grandi-piccole-Budda). Inoltre a lei piace la vita notturna mondana (minigonna, tacchi a spillo e avvistamento surfisti abbandonati), a me piace la vita notturna spartana (scarponi, pila e avvistamento pinguini).
Travel planning
Domenica sera, 1 febbraio 2004, raduno preparatorio. A casa mia. La piadina è un pensiero ormai abbandonato ma senza rassegnazione. Quando saremo in loco, vedremo quale business inventarci. Intanto Paolo ci da informazioni e suggerimenti sul percorso, sui luoghi da evitare e quelli da non perdere. Ma prima di partire dovremmo far nostra la consapevolezza che Kerouac, quando viveva in diretta il brivido di ‘On the road’, aveva avuto una grande intuizione:
“Se non sai dove stai andando non potrai mai perderti”.
Invece di farmi influenzare dalle perenni ammonizioni di mia mamma che fin da quando ero adolescente mi diceva “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei..”, un bell’eufemismo per farmi capire che non dovevo frequentare cattive compagnie (quelle che non vanno alla messa, quelle con la minigonna, quelle che fumano, che sono di un’altra religione e la danno a tutti), io faccio mio il pensiero di Kerouac e lo adotto come guida da allegare alla Lonely Planet.
Intanto il viaggio comincia con una navigazione virtuale senza pericoli. Mi ubriaco di immagini australiane per stordirmi di sogno e prepararmi al ‘viaggione’. So che l’ottimismo è la pazzia di sostenere che tutto andrà bene. Lo stress mi sta uccidendo ma io partirò prima. La saggezza che viene da lontano ed evoca il mio dolce preferito (buddino) dovrà accompagnarmi come un talismano, filtrare gli ostacoli che imprigionano tutte le possibilità frapposte come steccati fra il dire e il fare, tra il pensare e il realizzare il grande viaggio.
In venti minuti ho già percorso con l’immaginazione , cartina sottomano, tutte le autostrade dell’Australia. La guida a sinistra mi ha un po’ sfiancata ma io resisto. Ho capito che in quaranta giorni si può fare molto, forse toccheremo anche le Isole Fiji e passaremo qualche giorno a Perth, dove la Manu, un’altra naufragata del progetto ‘piadina’, passerà parte del suo viaggio in solitario. Noi andremo in soccorso alla sua solitudine, anche se lei non ce l’ha chiesto. Giusi insiste mossa dal suo spirito filantropico. Viste le premesse, sono convinta che Wonder Woman & Co (io e Giusi) dovranno passare l’ultima settimana in un centro benessere per rifarsi dallo stress da viaggio. Una manutenzione straordinaria dei nostri piedi, del nostro cervello e una riequilibratura degli assi. Tutto questo ammessochenelfrattempononciabbianomangiatoicoccodrilli, nonciabbiastupratoqualcheaborigenovendicativo, l’escursione nel reef sia andata liscia, senza squali che affondino la barca, senza balene che l’ingoiano, senza meduse che ti pizzicano mortalmente e serpenti che ti azzannano le caviglie e piante velenose che ti ammazzano solo a guardarle. Questo viaggio, se vogliamo prendere coscienza dei pericoli che comporta, è un percorso su strade fiancheggiate da lanciatori di coltelli anziché alberi. Nella mia mente c’è disordine ma ogni cosa è al suo posto, come in un quadro di Magritte. E il mio corpo è un fuoco di artificio difettoso, un residuo all’uranio. Chi tocca muore. Devo partire per salvarmi dal veleno delle cattive abitudini Come quella di vivere sempre in riserva, come se abitassi al pronto soccorso.
Voglio ritrovare il contatto con il mio ruggito interiore e farlo fluire al di fuori di me.
Il Bagaglino (si fa per dire)
Parto senza uno specchio così mi sentirò libera di essere bella comunque. Parto senza il sacco a pelo, tanto là fa caldo e due chili in meno sulle mie spalle sono una consolazione. Giusi porta la tenda, ma finiremo per non usarla mai perché ci sarà sempre un ciclone dietro l’angolo che ci scoraggia a piantarla. Non ho portato neanche il tagliaunghie per risparmiare 10 grammi di peso. Lo shampoo solo in campioncini. Il sesto giorno presi una saponetta, la spezzai alla maniera della divisione dei pani e dei pesci per farla bastare per tutto il viaggio. Gli ultimi giorni ho fatto la doccia con last al limone (sperando nell’effetto citronella). Ma la miglior arma contro le zanzare è l’olio di Melaleuca. Io e il mio The Tree Oil eravamo diventati inseparabili. Era la mia droga di viaggio, un pronto soccorso efficace. Ma chi ti sta vicino ti odia. La Giusi, aveva cominciato ad odiarmi. L’odore forte di questo rimedio fa ubriacare le zanzare ma fa impazzire gli umani.
Avrei voluto essere nei luoghi senza una mappa, per non dover impegnarmi troppo a raggiungerli. Sarebbe stato bello farsi trasportare dai paesaggi senza prefissarsi una meta. Lasciarsi sedurre dai tramonti, dai profumi della foresta o dai bagliori del cielo che sovrasta una spiaggia. Vestirsi solo con due gocce di chanel n. 5 e non sentire mai freddo. E non essere mai punta dalle zanzare. Partir leggera, per un più agevole duello coi miei limiti, per snobbare le mie fragilità e le mie paure. “Perché parto?”, mi chiesi mentre terminavo i bagagli.
Parto per dissociarmi dal tempo che ‘mangia la vita’. Per farlo rimanere l’alimento che mi fa crescere anziché invecchiare. Parto per ripulire, archiviare, resettare, alleggerire, rallentare. Voglio camminare al ritmo dell’ascolto. Ritrovare l’equilibrio tra il dovere e il gioco, la regola d’oro degli aborigeni. Coloro che restano al di fuori del tempo, liberi da esso. Il tempo per loro è l’alba che si trasforma in tramonto, è il ritmo delle stagioni. Parto per risvegliare lo Shamano che è in me, così assopito dagli stordimenti del mondo che corre. Vorrei ritrovar la calma, la ricettività, la memoria delle cose e delle persone trascurate, l’osservazione, la deduzione, l’attenzione, l’ascolto.
Cerco l’emozione del ‘qui e ora’ tra le braccia dell’Australia.
Parto per prendere il meglio dalla mia solitudine. Non è una fuga. E’ già tutto affrontato, anche se non completamente risolto. Non parto per ritrovare me stessa perché in fondo non mi sono mai persa. So che è già tutto dentro di me, anche l’Australia. L’andare là è un incontro con l’altra parte di me, quella che contiene l’oceano, le spiagge bianche, il profumo degli eucalipti, il serpente arcobaleno, l’onda che travolge, la medusa che punge, il sole che brucia fra l’alba e il tramonto, la minaccia del ciclone che fa parlare il vento, il deserto rosso di passione e di silenzio.
Fibrillazione 1 marzo
Nevicava a dirotto. Il treno che ci portava verso Roma era ben deciso ad arrivarci nonostante il brutto tempo. Poi, all’improvviso, è collassato, indipendentemente dalla neve. Si è rotta la motrice, troppo opsoleta per completare il viaggio. E pensare che, proprio allo scopo di evitare imprevisti che ci facessero ritardare abbiamo preso il treno precedente a quello che sarebbe comunque arrivato in orario. Infatti quello lo abbiamo visto sorpassarci mentre eravamo ferme tra i monti pieni di neve, lontano da qualsiasi stazione o persona o anima che ci potesse soccorrere. Dopo un’ora di attesa della motrice nuova in arrivo da qualche stazione ferroviaria dei dintorni, non eravamo ancora disperate. Recitavamo il Sutra del Loto e basta… e finalmente la motrice arrivò, ma arrivò dalla parte sbagliata. Anziché trainarci verso Roma ci ha riportato indietro verso Orte. Per ordini dall’alto, ci hanno detto, forse qualche dirigente delle ff.ss laureato a Harward. Fu il contrattempo fatale. Quello che ci fece arrivare all’aeroporto appena in ritardo per rimanere a piedi, quando ancora l’aereo era in pista ma pronto per il decollo. Affrontammo con rabbia il disastro italiano che si ripete ogni giorno. A volte fa vittime negli ospedali, a volte nelle scuole, altre sulle strade. . Ma le coincidenze o le non coincidenze non arrivano mai per caso. Perdere l’aereo ha avuto i suoi vantaggi. Lo racconterò più avanti, quando mi renderò conto che è stato una specie di ‘sliding doors’.
Du bai?
Passammo la notte Romana da Allì Babbà, un amico conosciuto durante un viaggio in Marocco, dove gli è stato accollato questo simpatico soprannome. Da allora ci piace chiamarlo così. Il giorno dopo per non rischiare che piantassimo la tenda a casa sua (lui la chiama Casa della famiglia Adams, tanto è lugubre nel suo esterno) ci ha tirate giù dal letto di buonora.
Alle sei di mattina corremmo all’aeroporto per paura di imbatterci in qualche altro contrattempo. Alle tredici del due marzo duemilaquattro eravamo già con le cinture allacciate, pronte per il grande volo, quello che in tutti i sensi doveva aiutarci a spiegare le nostre ali alla ricerca dell’Australia con l’aiuto del Budda, che in quel preciso momento non sapevamo se era ancora dentro di noi, se ci aveva abbandonato o se non lo abbiamo mai avuto.
“L’aereo perso non è caduto. E neanche questo cadrà. Perché dovrebbe? Tra qualche ora saremo a Dubai. E proprio là, incontreremo, forse, lo sceicco che non avremmo incontrato prendendo l’aereo di ieri. E magari proseguiremo il viaggio con lui, che forse già possiede un veliero, pronto ad aspettarci nel porto di Sydney… “Mioddio quanto sfarzo in questo aeroporto dorato!”. Il caldo ancora non si sente, anzi, l’aria condizionata è così potente che ho bisogno di una sciarpa e ho le dita congelate… Poi mi riscaldo lo sguardo osservando i lampadari d’oro massiccio e le colonne scintillanti come gli sguardi degli arabi. I loro occhi fanno paura, sanno di mistero profondo.
I duty free nei corridoi vendono gioielli esposti come frutta nelle bancarelle del mercato. Non ci sono guardie giurate nei dintorni. Non servono. I ladri stanno alla larga perché il furto viene punito con amputazione delle mani. Ci fa molto piacere, siamo più rilassate nel custodire i nostri bagagli.
Una suite ci aspetta all’Hotel Millennium di proprietà della Emirates. Lì passeremo la notte prima di raggiungere Sydney, facendo finta di essere ricche.
L’aereo per Sydney è partito alle 10 e 30 da Dubai . Quindici ore di volo. Ho dimenticato la melatonina e non ho pensato di prendere il tavor. Rannicchiata e indolenzita per ore, vedo una sagoma avvolta in una coperta color ocra. Ho già avvistato Ayers Rock e i monti Olgas. Sento un ruggito costante emergere dalla stessa coperta. Alle cinque di mattina c’è già il passaggio delle balene col suo concerto fra le onde. Credo di aver sentito anche le campane. Ma quelle forse le ho sognate.
Ho provato ad ascoltare Beethoven, la musica araba, ho recitato mantra tibetani , ho sniffato la puzza di piedi del viaggiatore dirimpettaio. Ma senza chiudere occhio. E allora sono andata in bagno a fare il bucato (durante un vuoto d’aria mi si è rovesciato addosso il vassoio con il cibo appena servito. Ho steso i panni con due mollette e un filo portati da casa, incastrando il filo negli sportelli dei portabagagli sopra di noi. Tanto dormivano tutti. Anche le hostess e gli stuarts. Con l’aria condizionata sparata al massimo si sarebbe asciugato tutto in quindici minuti. Senza lasciare tracce, prima che le luci del giorno penetrassero dagli oblò, prima che tutti si togliessero la mascherina grigia davanti gli occhi e prima che qualcuno smettesse di russare imitando il barrito degli elefanti, il ruggito del leone e il lamento delle balene, io avrei raccolto il bucato, smontato lo stendipanni e indossato di nuovo i miei vestiti (nel frattempo mi ero arrotolata la copertina come se fosse un pareo. Se andare in Australia doveva essere una prova di coraggio, quella più grande si era consumata prima ancora di atterrare. Vedendo quell’immagine mi è venuto in mente di fotografarla e proporla per uno spot pubblicitario della Emirates: ‘Fly confortable, feel like home’. Mi sono resa conto di aver fatto una napoletanata. Ripresa la lucidità ho pensato ” Devo smetterla di frequentare i corsi di pensiero creativo. Prima o poi mi arrestano”.
Per passare le ultime ore di volo ‘ammazzando il tempo’ (Dio non me ne voglia, son sicura che un giorno mi pentirò anche di questo) faccio qualche passeggiata tra i corridoi. Una trekker soffre a tenere le gambe ferme. Guardo le facce intorno e cerco di capire se c’è qualche italiano tra i passeggeri. Faccio finalmente un avvistamento. Un ragazzo dalle meches color oro sta leggendo la Lonely planet, forse ci può dare qualche consiglio dove passare la prima notte a Sydney. Ancora non sappiamo se la passeremo stese su una panchina nei botanic gardens, all’aperto sotto il bay bridge o se andremo direttamente in qualche ristorante a fare la piadina in cambio di vitto e alloggio.
Sydney
La prima cosa di cui mi sono preoccupata dopo l’atterraggio non è “dove dormirò stanotte” ma “riuscirò a prenotare un trekking alle Blue Montains per oggi?” (erano le sette di mattina e quasi quasi avrei anche potuto farcela. Ma prima, forse, era meglio depositare i bagagli).
Il giorno a Sydney è trascorso sotto forma di vagabondaggio a piedi nella zona portuale. Camminammo attraverso un parco dove pipistrelli enormi stavano con la testa in giù appesi ai rami di alberi tropicali. Sembravano lì solo per spiare le nostre goffe escursioni da turiste anarchiche, ancora ignare dei reali pericoli del luogo. Sembravano tante vecchiette sui balconi di Napoli, col copricapo nero, pronte a ficcare il naso sui fatti dei nuovi vicini di casa per il semplice gusto del pettegolezzo. E poi l’iguana, ferma su una pietra restò immobile per tanto tempo spacciandosi per una scultura (non siamo poi tanto fesse). E così, in preda all’euforia della bellezza emergente dalla baia piùbelladelmondo, un po’ confuse dal jet lag, ci ubriacammo della brezza marina facendo una gita in barca per assaporarne meglio i profumi e le tonalità. Esauste, tornammo all’Ostello separatamente. Io non potevo evitare di strordirmi di shopping nel momento cruciale dei saldidifinestagione. “Non rimando mai a domani quello che posso fare oggi. Metti che nel deserto non trovo abbastanza souvenirs è meglio avvantaggiarsi”. Ero così cotta che non riuscivo a ritrovare il mio Backpackers perché non me ne ricordavo il nome e nemmeno l’indirizzo.
“Madunena senta…….”
Blue Montains 5 marzo 2004
Trekking bellissimo. Ma sono stanca come se qualcuno mi fosse passato addosso con un rullo compressore. Le Blue Montains sono rossastre ma non rocciose, la vegetazione è intensa così come l’azzurro del cielo che le sorveglia, un cielo vaporoso e denso di profumo di eucalipti, grazie all’olio che si espande nell’aria e che conferisce loro una tonalità ‘blue’. Appunto. Abbiamo visto i primi canguri. Le prime volte li scambiavo per pecore. Un’emozione, così come il sole australiano sulla pelle. Al ritorno, il minibus che ci riporta a Sydney passa attraverso villaggi che mi ricordano la California. Ricchi di icone che evocano la vicinanza spumeggiante del mare: uomini con infradito e braghe corte che girano con il loro inseparabile sotto braccio, il surf.
6 marzo 2004 Si parte per Melbourne, Shumacher ci aspetta
Il viaggio non è la meta. Decidiamo di spostarci in pulmann. Primi vagiti di disapprovazione della mia compagna di viaggio. Già mi accusa di decidere tutto io e siamo solo al terzo giorno. “Madunena senta…tenme bona”. Io mi sento molto Kerouac, non so cosa si senta lei. Comunque io vorrei vedere cosa c’è tra i due poli. Tra Sydney e Melbourne, voglio vivere passo per passo il cambio di panorama, di clima, le metamorfosi della natura che, per almeno ottocento chilometri sembra ancora molto verde. Ogni tanto, lontano dalla strada , vedo tappeti di erba rasata. Sono campi da golf. Ai bordi dei fiumi, distese di speranza. E’ l’umidità prima del deserto. Dopo Camberra i prati gialli mi ricordano che l’orzo e il grano non sono ancora tagliati. Gli eucalipti spuntano come chiazze verdi che si lasciano sballottare da un vento bizzarro e incostante. Nel panorama bicolore, la lotta tra il giallo e il verde sostiene il verde. E’ là che dimorano mandrie sonnecchianti di bovini neri. Sostano sotto gli alberi come indiani intorno a un fuoco, consumando il loro rito quotidiano del non far niente, aspettando il susseguirsi di albe e tramonti, gli eventi che scandiscono il ciclo delle giornate. E in mezzo alla mandria una bestia più imponente, forse un toro, forte delle sue corna, sembra un capo tribù al colmo della sua autorevolezza.
Ho dormito rannicchiata in posizione fetale per circa quattro ore. Continuo a guardare quel finestrino rivolto a est e vedo chiazze nere che sembrano mucche. Si stanno radunando in cerchio. E’ in atto un ‘mucca convention’. Hanno l’atteggiamento di chi sta confabulando. Forse un prossimo sciopero del latte. Più lontano vedo chiazze nocciola che suppongo siano pecore, anche se all’inizio le scambiavo per canguri. Ho saputo che le pecore australiane hanno problemi di vista a causa del sole accecante. Mi viene da belare. I miei occhi sono massacrati dalla troppa luce, nonostante gli occhiali scuri. Non faccio altro che vedere canguri col pelo ricciuto. Il sole si sta preparando al tramonto ma è ancora troppo acceso. Vorrei essere sola in questo momento, scendere dal bus, avviarmi per i campi e iniziare un vero duello con la natura. Prepararmi il giaciglio sotto un eucalipto per respirare i suoi vapori balsamici, farmi aprire le narici e far entrare l’energia e la bellezza di questo paese meravigliosamente insidioso. Fare una comunione con la ‘pacha mama’ oceanica.
La solitudine non è molto interessante. Meglio condividere. Se penso alla giapponese che ho incontrato ieri nelle Blue Montains, mi viene tristezza. Sorrideva solo alla sua macchina fotografica, quando era in procinto di farsi una foto con l’autoscatto.
06 marzo 2004
Alle undici della sera il greyhound di turno ci ha scaricate al bus terminal di Melbourne e la Shelley è arrivata poco dopo a prelevarci, come da accordi, per rendere la massima ospitalità a casa sua. Però, quella sera, non si poteva andare a casa senza passare per Lygoon Street, il quartiere italiano, e respirare l’aria festaiola che precedeva il gran prix di formula uno. Le icone della Ferrari erano ovunque. Ho persino mangiato la pizza ‘ferrari’ al posto della consueta ‘ortolana’. E’ bello stare al gioco. Mi sento flessibile e creativa.
07 marzo 2004
Dal grande schermo della piazza principale seguiamo fin dal mattino i preparativi alle corse. Grande eccitazione ovunque. Vediamo la faccia simpatica di Valentino Rossi che commenta, poi si va a vedere un po’ di arte aborigena e a mangiare sushi e sashimi nel lungofiume affollato di gente e bancarelle. Dopo pranzo ci inoltriamo clandestine nell’ascensore dell’albergo più alto di Melbourne per gustarci la città dall’alto e provare a seguire un tratto di pista dove sfrecciano ancora le Ferrari. Più tardi, dai sorrisi di un gruppo di appassionati con bandierina in mano apprendiamo che la Ferrari ha fatto il bis con Shumi e Barichello sul podio. Che peccato che non possiamo festeggiare con la piadina!
Serata allo zoo per il concerto mezzo country e mezzo jazz della serie ‘Twilight in the zoo’. Sembrava la festa dell’Unità. C’era un gran odore di salsicce, ma ci mancava tanto il ‘lisio’.
08 marzo 2004
Oggi abbiamo programmato la gita lungo la ‘ Great Ocean Road’, il top dei panorami oceanici. Siamo partite senza sapere che ora era e a che ora saremmo tornate. Gli orologi quà non servono. Quelli appesi in casa di Shelley mi confondono un po’ perché ognuno segna un’ora diversa. Va bene così. L’importante è partire. Cesta pic-nic e musica di Van Morrison, Simply Red, Annie Lennox e Dire Straits. Il serbatoio pieno. Il tea tree oil e la protezione solare non mancavano. Ci sentivamo le tre grazie ‘on the road’. Sapevamo dove stavamo andando ma non avremmo potuto perderci. E non facevamo caso alle nuvole che ci seguivano. In quel momento avevamo il sole dentro di noi.
09 marzo 2004
Caro Diario, vorrei poterti scrivere che:
– la notte riesco a dormire nonostante i suoni gutturali delle balene, il soffio della locomotiva e il barrito di pachidermi sognanti. Sto snocciolando eufemismi per dire che qualcuno sta russando in modo evocativo…
– mi sono candidata a sindaco di Melbourne e ho deciso di non tornare perché qua si sta da DDio
– ho ammazzato un pitone e mi farò fare un paio di stivali da cow girl con tacco pericoloso
– ho superato i miei limiti e le mie tristezze e in Italia non mi rivedrete più (solo se pagate una grossa taglia)
– sto nel momento senza pensare a quello che farò domani e non mi pungono più le zanzare…..
– sono stata rapita da un surfista innamorato….
Fine del diario del 9 marzo
10 marzo 2004
Viaggio in bus direzione Adelaide. Percorso gradevole, allietato dalle vicine di poltrona. Due vecchiette canadesi stanno facendo il tour dell’Australia e cerchiamo di convincerle a venire nel deserto con noi. La figlia ha settantacinque anni, la madre novantaquattro. Sono due fenomeni. La figlia in un momento di euforia declina l’invito a seguirci nel deserto e dice che lei sa dove è stata ma non sa mai dove sta andando. Ho pensato che forse questa è la zia di Kerouac. Non si perderà mai. Arriviamo ad Adelaide……… Serata con tanto tanto tanto Sushi… “evviva …ho superato la paura dell’epatite…”.
11 marzo 2004
Australia, vaff………….. Mi sono svegliata imbubbonata con ventiquattromilamorsi di non so quale strano insetto o ragno o scorpione. Mi gratto fino all’inverosimile mentre sto rischiando di perdere il fuoristrada che mi porterà a Kanguroo Island. Cerco di imitare Marlo Morgan, colei che ha imparato dagli Aborigeni ad innalzare la soglia del dolore! Quando marciava scalza nel deserto rosso, coi piedi invasi da mille spine, lei distoglieva l’attenzione dal male. Cerco di imitarla per evitare il prurito che mi percorre come una scossa elettrica, visualizzando una situazione piacevole (io nel letto con Russell Crowe o Mel Gibson). Afferro il mio zaino, dopo essermi guardata fugacemente nello specchio del bagno e controllato il fiorire della primavera rossa sul mio viso e sul mio corpo. Lancio una seconda imprecazione all’Australia. Penso a quando dovrò affrontare i coccodrilli, i serpenti e le meduse mortali. Sono già sfinita al pensiero ma il clacson suona e io mi precipito a partire per Kanguroo Island. Se c’è un Dio e se io sono veramente Budda, vado là e torno con un serpente in bocca.
12.3.04
Io non sono Marlo Morgan, ma lo diventerò, in nome del Budda che è in me. A Kangoroo Island ho bevuto acqua piovana, ho visto un canguro agonizzante, senza svenire, ho fatto colazione sopra un tronco di Eucalipto rovesciato (avrei preferito farlo sopra il tronco di un surfista abbandonato), mi sono svegliata col frastuono dei cinquettii di uccelli corposi e colorati. Dormito in un letto di acari e polvere che ho cercato di ignorare. E pensare che la mia pelle ancora martoriata dal prurito di ponfi vermigli era pronta per un nuovo sole, per nuove carezze di luce.
E’ vero che la vita è una lotta continua ma io avrei voluto, almeno in vacanza, fare una tregua.
Sono ancora a Kangoroo Island. Non ho l’orologio, ho il telefono spento, non so che giorno è. Sto imparando la lentezza. Abbandono l’idea di cavalcare il tempo in modo forsennato come se conducessi l’attacco di una battaglia vincente. Paradossalmente, vincere è perdere il tempo per farsi ritrovare da lui in qualsiasi momento.
Kanguroo Island è un’isola selvaggia, mi trovo in sintonia con questo ambiente. E’ stato bello raggiungerla e rendersi conto che c’è una natura intatta, rispettata, coccolata. Poco cemento, poco turismo, molta attenzione per la conservazione degli agi della fauna e della flora. I koalas sono dei gran timidoni curiosi, le istrici animaletti mafiosi (intouchable). Le iguane un po’ malandrine. Mimano gli animali imbalsamati come forma di difesa. Ti fanno credere di essere finte. I pinguini sono riservati e timorosi. Ti guardano come per dirti “Cosa vuoi da me?”. L’aquila di mare domina la pianura rossa macchiata di eucalipti. I Kanguri sono così ingenui che ancora non hanno capito la lezione. Continuano ad attraversare le strade incuranti delle auto che passano. Scelgono sempre l’ora del tramonto per suicidarsi.
La foca è l’animale che più mi ha conquistata. Assieme ai leoni marini, è quella che vive nel modo più piacevole (secondo me). Questi mammiferi hanno molto in comune con gli umani. Soprattutto con i napoletani o i messicani: sono sempre in siesta. I leoni marini ricordano l’uomo, la foca, la donna. Nel pensare comune se uno ti dice che sei una foca lo prendi come un insulto, perché è un’allusione all’essere imbranate o goffe o stupide. Oggi ho imparato l’intelligenza, la sensibilità e la dolcezza delle foche. Le foche in quattordici giorni imparano a svezzarsi, a sopravvivere cacciando cibo e acquisiscono la più raffinata arte della sopravvivenza. Da adulte sono ammaliatrici dei loro maschi. Li sanno coccolare come vere geshe, senza sottomettersi. Le ho osservate stese al sole. Prima surfano sulle onde col fare atletico dei grandi campioni del mare, poi si stendono sulla sabbia lasciandosi scaldare dal sole. Sanno dosare le loro energie riservandone un po’ anche per gli imprevisti. Sono maestre di sopravvivenza, quando, in caso di attacco da parte di uno squalo, riescono a guarire da sole le loro ferite. Sono un po’ shamane e un po’ streghe. Mentre quei ‘lulloni’ dei leoni marini, dopo diciotto mesi di vita, ancora vengono allattati e si fanno fornire il cibo dalla mamma anche quando sono cresciuti (fanno come i single in carriera che a trentanni mangiano ancora dalla mamma). Io credo che il massaggio body to body l’abbiano inventato le foche. Sono bellissime quando si impettiscono mostrando al sole la loro parte più nascosta, orgogliose dopo aver cavalcato le onde più alte. Poi, forti della loro generosità, appoggiano con dolcezza il muso sul dorso del compagno e lo percorrono per tutta la lunghezza facendovi aderire il petto. E lo coccolano dolcemente, compiaciute del loro modo di darsi e di stare insieme. Hanno l’arte dolce della mamma e della seduttrice. Ma una volta sole, sanno sopravvivere, anche agli squali. E possono vivere tranquillamente senza quei ‘lulloni’ dei loro maschi. Sanno amare senza dipendere. Grandi maestre per tutte le single del mondo!
Oggi è l’ultimo giorno sull’sola. Ho fatto sand board su una duna detta ‘little sahara’, un piccolo angolo di Africa a Kangaroo Island. Bel modo di congedarmi da questo paradiso di nuvole bianche. Dai suoi strati di azzurro indefinibili, la sua atmosfera selvaggia. Le strade di terra rossa, gli eucalipti, i koalas.
13.03.2004
Oggi grande trepidazione, si parte e attraversa il deserto a bordo del Ghan, il treno che arriva fino all’estremo nord dell’Australia. Ventidue ore di viaggio. C’è un bar-ristorante, i cuscini e persino le docce. Prima di partire due operaie delle ferrovie australiane hanno pulito i vetri del treno, per farci ammirare meglio le bellezze che incontreremo. I due più bei momenti: il tramonto rosa e l’alba , infuocata tra il rosso della terra e quello del sole nascente dietro una pianura senza confini, dove l’aria si unisce con la materia e bruciano insieme all’esordio di un nuovo giorno. Potrebbe essere l’ingresso all’inferno. Col passare dei minuti il sole fa esplodere tutta la sua energia, la sua intensità cromatica. Manifesta il suo potere sul mondo. Non a caso gli orientali praticano il saluto al sole con la ritualità di una preghiera. Gli Incas lo adoravano come il Dio supremo : fonte di vita, di luce, fertilità e saggezza. In quell’alba, stamattina, ho visto la linea di confine tra la vita e la morte, tra l’allegria e il dolore, tra la luce e il buio. Ogni tanto la linea veniva interrotta dalla sagoma di un animale o di un albero. Forse sto farneticando in preda a una forma di sindrome di Stendhal. Troppa bellezza in un colpo solo…
16.03.04
Partenza per il safari: Ayers Rock, Olgas, King Kanyon. Tour scomodo, spartano, polveroso, eccitante. Sporco ma bello all’idea di non aver paura di farlo. La notte sotto le stelle mi attrae. Stregata dalla croce del sud dimenticherò i pericoli che il buio nasconde . Chiuderò gli occhi dopo aver contemplato Venere, stretta nella morsa del mio sacco a pelo. Il cielo australe mi pungerà l’anima.
17.3.04 Ayers Rock è la stessa emozione del Machu Pichu. Ho sentito l’energia del luogo sacro. E’ un gigante pietrificato, imponente, magico e rosso di rabbia. Popolato da energie forti. I folletti del dreamtime sembrano essere ancora là, dispettosi e tenaci. Attaccati all’impossibile. Sono diventati un tutt’uno con il luogo. Come i politici con le loro poltrone. E il popolo fedele, drogato dalle sue convinzioni, vive il presente con l’apatia di chi non ha più speranza, se non il ricordo di un passato da sogno, dove l’uomo moderno non era ancora arrivato a fare massacri sulla natura. Gli aborigeni sembrano tante ombre scure sotto gli eucalipti. Diseredati senza sorriso. Corpi estranei in una società che corre con scarpe comode, mentre loro si ostinano a mantenere il contatto con la terra vagando a piedi nudi, estremità callose e insensibili alle insidie. Strappati dalle loro radici come alberi destinati a rinsecchire, oziano in una specie di oblio confortato dall’alcol. Sembrano bestie vestite di colori sgargianti per inventare un carnevale quotidiano. Il loro ‘pituri’, le foglie di tabacco che usavano come narcotico, ha lasciato il posto alle droghe moderne. Si sfregiano bevendo birra, coca cola e mangiando da mc donald . E il dijeridoo non è altro che un’icona nostalgica . Non è più un suono vibrante ma un grido di dolore.
Ho camminato intorno al perimetro di Ayers Rock e ho scelto di non salirci. Un segno di rispetto per le anime aborigene.
20.3.04
Alice Springs è una macchia verde dentro un deserto rosso. Geograficamente potrebbe essere una las Vegas sobria. E’ un’oasi in un mare di niente. Popolata di mucche scarnite che sopravvivono ai bordi del centro e dai corpi senz’anima di aborigeni gitani. E’ una città polverosa, malinconica. Quando esco dal Melanka Hostel ho due opzioni. A destra si va in centro, a sinistra si va all’Emergency. Adoro l’Emergency, è un luogo di meditazione. Si aspetta per ore. I pronti soccorsi sono diventati il mio museo alternativo. Lì trovi tutti i reperti della società contemporanea. E tutti i repertori.
21.3.04
Escursione a Mc Dowell Ranges. Ho respinto le zanzare col pensiero. Faccio esperimenti di telepatia. Gioco a fare la Marlo Morgan nei momenti più difficili. A volte mi arrendo concedendomi ai miei limiti e alle mie paure irrisolte.
Oggi si vola verso Cairns, la foresta pluviale, il reef. Questa è la prova più dura dopo il deserto, poi si dovrebbe andare in discesa. C’è un ciclone in agguato che mette a rischio il nostro volo. Speriamo che scoppi a piangere subito così quando arriviamo è già sereno.
22.3.04
Non è andata così. Un ciclone nuovo sta cercando di insinuarsi nei nostri programmi, una specie di virus che sballa tutto. L’arrivo al Calypso Hostel ci avvolge nella sua umidità. Domani non si può fare nulla, niente Reef, niente Cape Tribulation. Niente coccodrilli e bagni alle Gole di Morsmen. Dobbiamo solo aspettare che passi la minaccia. Decidiamo di trascorrere una giornata a Palm Cove, sul mare. Scendiamo dal bus dopo mezz’ora di tragitto. Sembriamo due extra comunitarie appena scese da un gommone e approdate in un’isola felice per soli ricchi. Ci sentiamo un’ po’ corpi estranei ma proviamo ad integrarci. La nostra mise da vacanza è molto discutibile. La mia soprattutto. Se in Italia vestissi in questo modo mi arresterebbero. Oggi è il primo giorno di riposo vero, niente ostacoli, niente lotte. L’importante è: non fare il bagno perché ci sono le meduse mortali, non stare al sole più di mezz’ora altrimenti ti cuoci come una bistecca . Dopo trequartidora sono già ‘well done’. La mia pelle frigge anche se sono stata sotto una palma. Oggi poteva essere tregua, le zanzare erano a riposo. Spero che la mia pelle non cada a pezzi. Sono tutta ‘on fire’.
E stanca di questa vita zingara. Mi manca la morbidezza dei miei agi!!!!!!!!!!!!!!!!
23.3.04
Un altro ciclone minaccia le nostre certezze. La barca che ci sta portando al reef traballa. Il mare è cupo perchè assorbe il grigio delle nuvole. Decido di non scendere in acqua fino a che un baldo giovane dall’aria gaia non mi prende per mano e mi rassicura. Ho battuto il record dell’immersione più breve. In cinque minuti ho visto pesci blu e gialli. Ho visto Padre Pio e la Madonna. La maschera si è appannata e smesso di avere visioni risalgo la scaletta con l’affanno come se mi avesse rincorso un pescecane. Io e l’oceano non andiamo d’accordo, non mi concilierò mai con lui. Non ho vinto la paura di essere inghiottita dagli abissi. Ho visto la mia buddità stare a galla e specchiarsi nell’acqua. Ma solo per pochi minuti. Sto lasciando quà solo un pezzo della mia paura, per esser più leggera al ritorno.
Tutto perfetto. Il momento è magico perché il sole non mi ha tradita. Il ciclone si allontana. Gli squali dormono. Difendo i miei occhi con occhiali scuri perché ancora ho tanto da vedere. Il sole insidiosamente generoso li minaccia. Comincio a pensare e sognare in inglese. Madunena senta l’è ora da arturné a chesa!
24.3.04
Volo per Brisbane. Perfetto. La foresta sub tropicale sarà meno minacciosa, le giornate più rilassanti. La est coast era già programmata per il riposo. Io e Giusi scegliamo di separarci per avere un riposo più personalizzato. Io nel verde tra i serpenti, lei al mare tra i delfini. Così impariamo anche la solitudine da viaggio e l’indipendenza assoluta. Ci priviamo anche di molte piccole comodità. Adesso sai che se vai alla toilette tutti i bagagli devi portarteli appresso, perché non c’è più lei che te li protegge con il suo sguardo antifurto. Al bus terminal di Noosa Heads mi scappa forte, ho fame, ho sete. E devo girare con venti chili di bagagli. Troppo pesanti. Capisco che è giunto il momento di liberarmi di qualcosa o di riflettere sul fatto che avrei potuto lasciare la tenda a casa visto che non riesco a piantarla. Il ciclone perseguita le mie intenzioni. Così, anziché il campeggio scelgo ancora una volta l’ostello. Ne avvisto uno su una collinetta dentro la foresta sub-tropicale. Lo raggiungo a piedi, trascinando i miei zaini, sempre più pesanti. Non c’è posto perché non ho prenotato. Qui è diverso, se non si prenota, si dorme all’aperto. Torno indietro amareggiata. Questa volta in discesa. Lascio scivolare i miei fardelli, sempre più rovinati dall’asfalto e ritorno al punto di partenza: il bus terminal. Mi lascio cadere all’indietro su una panchina, mentre il mondo gira intorno. La stanchezza fisica e mentale sta per piegarmi le ginocchia. Mi sento osservata. La mia espressione di sconforto parla, quasi implora un miracolo. Sono sudata, stropicciata, sfinita. Apro un dialogo interiore con la parte più sincera di me, che si chiede: “Perché sono qui? Forse per dimostrare che ce l’avrei fatta? O forse per imitare Marlo Morgan?”.
Sono disidratata e mi concentro su una bottiglia di acqua minerale, ne divoro il contenuto. Tutto quello che bevo non si sparge tra le cellule ma arriva diretto sempre li, in vescica. E l’acqua che ingurgito non alimenta il mio corpo ma trova la via più breve per uscirne. Sembro più che mai una ‘boat woman’ appena sbarcata da un gommone. Gli autisti dei bus di tutta l’Australia si sono sparsi la voce e quando vedono una bionda con tre bagagli a mano e uno zaino immenso tirano dritto. Ormai sono segnalata in tutti gli stati, dal Queensland al South New Wales, dal Victoria all’Outback
Sono una specie di ‘non-wanted’ perché chiedo sempre una mano quando è ora di alzare i bagagli.
Sfogo le mie rabbie del momento in un dialogo muto, tra me e me: “Cari australiani antipatici, vorrei ricordarvi che vi siete appropriati di questo paese meraviglioso senza pagare alcun pedaggio, senza guerre, né lotte. Non avete nemmeno ringraziato il Capitan Cook che vi ha aperto la strada ‘ a gratis’. Gestite ristoranti facendo credere di saper cucinare la pasta e poi se una compagnia di bus decide di assumervi, dopo che avete fatto fallire il ristorante, non vi degnate di aiutare una lady italiana ‘extra comunitary looking’ a tirar giù o a caricare i bagagli”.
Dopo le imprecazioni, prima di capire cosa farò la notte, trascino i miei bagagli portandoli al bagno.
Sono pronta a svenire. Forse. O a cercare un’altra destinazione per la notte. Qui gli ‘homeless’ non sono accetti. Nel bel pieno delle turbolenze mentali vedo da lontano avvicinarsi una speranza. Un pulmino con la scritta Melaluka Hostel si è fermato vicino alla mia panchina. Peter, il suo autista, nonché gestore dell’Ostello, sta aspettando clienti. Gli chiedo se io posso aggiungermi alla lista. Mi dice di si. Sono salva. Questa sera si dorme al coperto. Non gli chiedo il prezzo, né dove si trova. Va tutto bene.
All’arrivo una nuvola di acari si solleva mentre appoggio lo zaino sul letto. Per riflesso comincio a grattarmi. Sento il prurito invadermi anche il cervello. Come quando ho la sensazione che mi spuntino foruncoli solo guardando la nutella.
E’ un bel posto, nonostante gli acari. L’oceano è di fronte, nascosto dietro le palme. Basta scendere una scalinata e già il suo ruggito si fa più vivo.
Domani andrò a Fraser Island . Lì troverò l’acqua morbida, tutti i toni del blu, le spiagge bianco-rosa, la foresta sub-tropicale, le lucertole giganti, i dingos e qualche squaletto biondo che mi chiederà “where are you from?”.
25.03.04
Guardo il sole e so che al mattino, se lo vedo appoggiato sull’oceano come una finestra di luce arancione sono le sei. Quando arriva dietro le dune sono le dieci. Poi, mi gira intorno e quando sto in giardino a spalmarmi l’aloe vera sulla pelle arsa, aspettando di pranzare, si nasconde dietro i panni stesi. Verso il tramonto perdo le sue tracce, forse cala dietro il promontorio verde.
Per risalire devi affondare. Quel giorno all’arrivo a Noosa Heads sono affondata e risalita in fretta. E’ stato come aver perso una moneta di metallo e trovarne una d’oro. Quel giorno è stato il mio ‘big wednesday’. L’alta marea, la luna crescente, l’incontro con Hugh.
26.3.04
Mi ha vista per la prima volta in giardino, quando stanca morta, triste e sola, ho lasciato affondare la mia pesantezza nella branda soleggiata, accanto alla pianta d’Aloe. Facevo la turista smarrita, tra folate di vento oceanico, odore di sale, e la luce accecante del sole pomeridiano. Ignara degli occhi che mi scrutavano curiosi dal giardino accanto, sentivo il fruscio dei panni stesi e la presenza di qualcuno in procinto di raccoglierli. Poi, la sera, qualcuno ci ha fatto incontrare. Il muso triste di Mac che aveva appena chiuso un storia d’amore con la sua ragazza coreana è stato il dettaglio galeotto. Presa da compassione e da un senso di cameratismo solidale gli ho passato il libro che avevo comprato ad Alice Springs, più per curiosità che per necessità: ‘How to mend a broken heart’. Così , la sera, uscimmo tutti insieme a bere un bicchiere, a camminare lungo l’oceano mentre Hugh spiegava il fenomeno delle maree collegato alla luna piena. E tra un passo e un sorriso ci mostrava la croce del sud esaltando la bellezza dell’oceano di notte e la sua voglia di tuffarsi e sfidare il suo ruggito minaccioso.
28.3.04
Hugh profuma di sandalo. La sua stanza è un tempio disordinato. Non c’è un guardaroba, solo tre borse di tela appoggiate sul pavimento ricoperto di un tappeto chiaro. Quelle borse sono il suo passato e il suo presente e mi dicono che lui vive di cose essenziali e non ha bisogni superflui. Nella borsa del suo passato ci sono le numerose cravatte che indossava sotto il camice di ricercatore nell’industria nucleare. L’uranio è stato il suo pane per diversi anni ma anche il suo più grande nemico. E quando ha capito che era ora di rinunciare al pane piuttosto che darsi al lento suicidio di una minaccia dalle dimensioni sconosciute ma intuibili, lasciò quel lavoro pieno di grandi promesse e di eccellenti guadagni. Ha fatto suo il concetto di qualità della vita. Molti lo vivono come uno slogan. Per lui è una filosofia. Come l’attenzione a se stesso e alla propria crescita. E così facendo ha rimesso tutto in gioco, giocando la sua vita in un’altalena dove la forza di gravità è più forte della spinta verso l’alto. Quando crollano le sicurezze economiche, a volte crollano anche gli affetti, quelli meno autentici. La sua compagna ha cominciato a scalpitare. Il denaro non bastava più. Ma lui, al benessere economico ha scelto la vita. E’ rimasto intatto col suo equilibrio, con le sue convinzioni. Ha abbracciato la coerenza. Per questo è solo. Del suo passato ha conservato solo le cravatte e un abito grigio, appeso alla maniglia della porta della sua stanza. Una chitarra, le foto di tre piccoli tesori biondi, un disco in vinile di Leonard Cohen.
Un senso di precarietà permea la sua vita in modo così positivo che quasi mi stupisce. Vive simbolicamente su una zattera ma è una zattera felice. Vorrei salirci anch’io.
30.3.04
Lui ama lavare la sua stanchezza nell’oceano. “This is my shower and my bliss”. L’acqua marina è una specie di acqua santa, il suo sacramento quotidiano. Vive con le stesse modalità di un viaggiatore. Sembra in vacanza. Nel senso di precarietà sta il suo equilibrio. Innamorato della vita ha saputo difenderla con le rinunce. Alle sei di mattina prepara il suo té, lo sorseggia in giardino e, prima ancora di scendere in spiaggia a salutare l’alba, guarda le nuvole. Da una prima occhiata alla loro forma capisce se il vento le spazzerà via. Saluta la sua giornata con un sorriso anche quando l’oceano è minaccioso. Lui non ha paura e il suo senso di calma permane anche quando il ciclone minaccia turbolenze. Conosce l’oceano e i suoi segreti. Quando si tuffa tra i flutti immergendosi nella loro benedizione quotidiana, sa quando arginare la loro prepotenza.
Lui ha la dolcezza e l’ingenuità del bambino, il sogno dell’adolescente, la passione dell’uomo e l’istinto del buon selvaggio. La sua felinità lo rende sensuale nello sguardo. Le labbra svelano con misurata generosità la bellezza del suo sorriso, degli occhi marroni con i toni dell’henné. Non porta gli occhiali perché non vuole barriere tra lui e il mondo, tra il mondo e le sue emozioni. Raccoglie le vongole e cattura i pesci con le mani, come un vero indigeno. Me li porge come se fossero gioielli, per arricchire i nostri spaghetti quotidiani. Il sapore di mare rimane nelle sue dita, mentre apparecchia la tavola col pareo colorato. Quello che la sera prima ha usato come lenzuolo. Quello che dopo il bagno ha coperto le sue nudità. Questo è un vero esempio di utilizzo creativo delle cose.
31.3.04
Hugh spirito aborigeno, delicato, fantasioso, selvaggio. Osserva le nuvole e sembra dirigerle con la sua volontà, spingendole dolcemente dietro la collina verde di foresta sub tropicale. Il suo sguardo è leggero e morbido come le piume di emu. Di notte segue il trasformarsi della luna e mi spiega il fenomeno delle maree. Lui dice che l’oceano è come un vecchio saggio severo. Devi imparare ad ascoltarlo per poterti fidare di lui. Stamattina alle cinque, ho avuto la benedizione di Hugh. Alle sei ho avuto quella del sole, quando siamo scesi in spiaggia, col cestino della colazione. Ho fatto yoga, ho offerto le mie nudità all’oceano che mi ha dato la terza benedizione quotidiana.
1.4.04
Passeggio lentamente sulla sabbia bagnata, verso la collina verde, promontorio da dove mi spiano gli dei. Penso a lui. Il mio ultimo dio. Anche oggi abbiamo ringraziato l’universo col nostro rito mattutino. Due farfalle nere con chiazze bianche, mi stanno girando intorno. Sembra una danza esplorativa intorno alla mia aura. Gli estremi lembi delle onde si addentrano sempre di più nella riva, spazzando via le impronte di chi è passato prima. Massaggiano i miei piedi, preparandoli a un nuovo giorno. Sto imparando ad ascoltarmi connettendomi con la voce dell’oceano, vecchio rude rassicurante come il guardiano di un faro. Ho fatto il bagno nuda in questa spiaggia così deserta e così popolata di spiriti buoni e invisibili. L’oceano ha lavato le mie ansie, mi ha spogliata di tutte le impalcature mentali. Come in un battesimo mi ha depurata di fardelli non scelti.
Mi sento felice, serena, appagata. Dentro di me c’è l’atmosfera di festa come quando in campagna si celebra un raccolto e la mietitura arriva generosa. Forse sto raccogliendo i frutti di un albero meraviglioso che ho piantato senza accorgermi. Guardo la spiaggia piena di buchi. Solo ora capisco che quei piccoli tunnel sono rifugi di gamberi bianchi leggeri come ragni.
Good bye Melaluka. E’ stato bello arrivarci. Odiare i suoi acari. Svegliarmi coi rimproveri dell’oceano arrabbiato di mattina presto. Spalmare la linfa di aloe sul mio corpo arso dal sole.
Nei miei occhi i colori della spiaggia dorata, il ricordo di un sonno profondo tra due braccia forti. Le nostre anime rannicchiate sotto il sarong profumato di sandalo. Un groviglio di energia fresca, luminosa. Mi chiede di partire con me e passare il week end a Byron Bay. Posso solo rispondere si. Vedremo i delfini, cammineremo nella foresta sub tropicale, ci arrampicheremo fino al faro. Da lassù riverseremo tutto il nostro benessere sul mondo. La gioia di essere là, ospiti di una suite very sweet, con giardino di palme, letto con lenzuola che sanno di mare e di fiori del paradiso. Buon pesce con salsa di mango, preparato da lui mentre faccio la doccia e aspetto il massaggio quotidiano con lozione di gelsomino, stirandomi come una gattina innamorata. Osservo l’energia del mio sorriso nello specchio del bagno e odo la voce dolce del mio miracolo vivente. Domani ci saluteremo ma non sarà un addio. Byron Bay sembra l’osservatorio del mondo. I delfini i nostri angeli che ci osservano da sotto, aspettando l’onda giusta per giocare a nascondino e ricomparire all’improvviso stupendoci.
Hugh ha aperto la porta della mia anima. Toccandola ha trasformato le mie paure in musica. Il mio fango in fiori di loto.
E’ stato bello salire su quella ‘zattera’ e assaporare la precarietà, l’esperienza del presente, delle cose essenziali . E capire che le paure sono come onde, se sai prenderle per il verso giusto, passano innocue. Devi solo riconoscerle e attraversarle. L’Australia è stata l’ onda più grande della mia vita, quella che trasportava in sé il mio ‘big wednesday‘.
Per i lettori
Questo spazio è un contenitore da arricchire insieme. Ben venga il vostro apporto sui temi dello star bene
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Australia
Jungle and stiletto
L’idea
Quel giorno di novembre io e Roberta avevamo deciso due cose importanti. Primo, iniziare un percorso spirituale che ci portasse per sempre lontano dalla sofferenza. Secondo, ma di uguale importanza, trovare un sistema per far entrare nelle nostre casse guadagni extra. Volevamo comprare un biglietto aereo che ci portasse lontano, più lontano della spiritualità, dalle nostre turbolenze dolorose.
Eravamo pronte ad entrare nel mondo buddista, prima ancora di esplorarlo. Dopo di che saremmo andate a Melbourne a fare la piadina per Shumacher, in occasione della Formula Uno, nel marzo successivo. Due progetti da “donne che corrono coi lupi”! Ovvero, che galoppano come struzzi col cavallo selvaggio della fantasia e della creatività.
Era il giorno 16 del mese dei morti, una giornata grigia dentro e fuori, quando ci avvicinammo in punta di piedi al meeting Buddista, nel teatro di Borgo Maggiore. Avevamo la curiosità di due adolescenti che vanno al cinema a vedere un film vietato ai minori. Uno spirito trasgressivo. La Robi sosteneva che è una filosofia, “il Buddismo di Daishonin non ha niente a che fare con la religione”. “Questo attenua la mia paura di tradire Don Marco” dico io con un sospiro di sollievo. “Il Budda non è un rivale del nostro Dio” mi dice la Robi. “Budda siamo noi. Questo meeting ci servirà a capire come possiamo manifestarlo nel nostro modo di essere e di stare con gli altri. Per diventare, in sostanza, il Budda che già siamo e che ancora non abbiamo avuto il piacere di riconoscere”.
Mi sembrava di peccare ma era solo un modo di cercare un terreno nuovo dove spargere i semi della mia fluttuante crisi esistenziale. Mosse dalle nostre personali motivazioni, ci incamminammo sotto la pioggia, risalendo la rampa di scale che portava al luogo ‘sacro’.
Da quel giorno di Novembre, umido e malinconico, abbiamo cominciato a recitare il mantradel Sutra del Loto. Il primo desiderio espresso, concordato con la Robi, non è stato ‘Voglio trovare l’amore’ ma ‘Voglio andare in Australia, metter su un chiosco per fare la piadina prima- durante e dopo il Gran premio di Formula uno fra il 1 marzo e il 15 marzo 2004. Allora ci rimbocchiamo le maniche e scriviamo subito una mail al nostro coordinator sul loco. Paolo era là, veterano dell’Australia, cuoco da sempre. Una joint venture era fattibile solo se lui avesse organizzato tutta la parte burocratica. Ma Paolo non ha avuto molta fiducia nelle neo buddiste, si è tolto dalla società prima che le cose potessero rendersi realizzabili. Troppo lavoro, troppa burocrazia, troppa mafia cinese che avrebbe ostacolato il nostro business. Troppo investimento. Era un gioco d’azzardo che le donne che corrono coi lupi avrebbero giocato comunque. Ma il progetto non è partito… E pensare che avevamo già trovato gli sponsors, gli slogan sulle magliette, le varie ricette: piadina Barichello (melanzane, mozzarella origano = $6 cadauna) piadina Shumi (pomodoro, pecorino, basilico = $7). Nella mia testa il progetto era già chiaro: la Robi all’impastatrice, Moreno all’affettatrice, la Manu alla cassa e io creative manager e public relations. Paolo kitchen camping chef, per piadine firmate con lardo di colonnata e peperoncino.
Paolo aveva detto no ma noi continuavamo a recitare il Sutra del Loto. Il Budda dentro di noi ci aveva convinto che gli unici ostacoli nel realizzare un desiderio sono quelli che ci creiamo nella nostra mente. Partendo dalla consapevolezza che solo tre cose sono potenzialmente impossibili: fermare il tempo, evitare la morte, e cercare di farti amare da un uomo che non vuole avere bisogno di te, continuavamo a credere che in qualche modo il nostro progetto si sarebbe realizzato.
Recitammo fino all’ultimo respiro con un unico mantra in testa: Shumi-piadina, piadina-Shumi. Poi, dopo un po’ di tempo abbiamo capito che forse in Australia si poteva andare anche senza la velleità di impiantare un business, magari la piadina l’avrei fatta lo stesso, a casa di qualche amico che avrei incontrato e che mi avrebbe ospitato durante i pellegrinaggi nel ‘downunder’.
La Robi senza la prospettiva del business non sarebbe partita, lei l’Australia l’aveva già vista, anni addietro, dopo aver mangiato uno yogurt fortunato (era stata estratta la sua cartolina che partecipava al concorso ‘vinci un viaggio con Danone’).
Tutto questo film è nato durante una chiacchierata. Una cena tra amici dove a volte ci si ride addosso parlando di cose serie o si ride di cose serie parlandosi addosso. Io quella sera me ne sono raccontate. Ho viaggiato anni luce con la mia fantasia. Dall’antipasto al dolce, tra una pietanza e l’altra, vagavo con la mia prolifera immaginazione senza sosta: in tre ore avevo già fatto mille piadine a un numero infinito di immigrati in attesa del Granprix, incassato la bellezza di $6.500,00 ( 500 piadine Shumacher e 500 piadine Barrichello). E solo durante le prove mi ero guadagnata tutte le spese di viaggio……
Qualche giorno dopo incontro Giuseppina, una buddista seria. Con lei comincio a recitare un altro mantra: Australia comunque – comunque Australia. E siccome anche lei, per pura coincidenza, aveva programmato un viaggio nel ‘downunder’, decidemmo di partire insieme, senza preoccuparci sul livello di compatibilità dell’accoppiamento (il solo fatto che a me piace il monte e a lei piace il mare presentava uno squilibrio, ma superabile per due grandi-piccole-Budda). Inoltre a lei piace la vita notturna mondana (minigonna, tacchi a spillo e avvistamento surfisti abbandonati), a me piace la vita notturna spartana (scarponi, pila e avvistamento pinguini).
Travel planning
Domenica sera, 1 febbraio 2004, raduno preparatorio. A casa mia. La piadina è un pensiero ormai abbandonato ma senza rassegnazione. Quando saremo in loco, vedremo quale business inventarci. Intanto Paolo ci da informazioni e suggerimenti sul percorso, sui luoghi da evitare e quelli da non perdere. Ma prima di partire dovremmo far nostra la consapevolezza che Kerouac, quando viveva in diretta il brivido di ‘On the road’, aveva avuto una grande intuizione:
“Se non sai dove stai andando non potrai mai perderti”.
Invece di farmi influenzare dalle perenni ammonizioni di mia mamma che fin da quando ero adolescente mi diceva “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei..”, un bell’eufemismo per farmi capire che non dovevo frequentare cattive compagnie (quelle che non vanno alla messa, quelle con la minigonna, quelle che fumano, che sono di un’altra religione e la danno a tutti), io faccio mio il pensiero di Kerouac e lo adotto come guida da allegare alla Lonely Planet.
Intanto il viaggio comincia con una navigazione virtuale senza pericoli. Mi ubriaco di immagini australiane per stordirmi di sogno e prepararmi al ‘viaggione’. So che l’ottimismo è la pazzia di sostenere che tutto andrà bene. Lo stress mi sta uccidendo ma io partirò prima. La saggezza che viene da lontano ed evoca il mio dolce preferito (buddino) dovrà accompagnarmi come un talismano, filtrare gli ostacoli che imprigionano tutte le possibilità frapposte come steccati fra il dire e il fare, tra il pensare e il realizzare il grande viaggio.
In venti minuti ho già percorso con l’immaginazione , cartina sottomano, tutte le autostrade dell’Australia. La guida a sinistra mi ha un po’ sfiancata ma io resisto. Ho capito che in quaranta giorni si può fare molto, forse toccheremo anche le Isole Fiji e passaremo qualche giorno a Perth, dove la Manu, un’altra naufragata del progetto ‘piadina’, passerà parte del suo viaggio in solitario. Noi andremo in soccorso alla sua solitudine, anche se lei non ce l’ha chiesto. Giusi insiste mossa dal suo spirito filantropico. Viste le premesse, sono convinta che Wonder Woman & Co (io e Giusi) dovranno passare l’ultima settimana in un centro benessere per rifarsi dallo stress da viaggio. Una manutenzione straordinaria dei nostri piedi, del nostro cervello e una riequilibratura degli assi. Tutto questo ammessochenelfrattempononciabbianomangiatoicoccodrilli, nonciabbiastupratoqualcheaborigenovendicativo, l’escursione nel reef sia andata liscia, senza squali che affondino la barca, senza balene che l’ingoiano, senza meduse che ti pizzicano mortalmente e serpenti che ti azzannano le caviglie e piante velenose che ti ammazzano solo a guardarle. Questo viaggio, se vogliamo prendere coscienza dei pericoli che comporta, è un percorso su strade fiancheggiate da lanciatori di coltelli anziché alberi. Nella mia mente c’è disordine ma ogni cosa è al suo posto, come in un quadro di Magritte. E il mio corpo è un fuoco di artificio difettoso, un residuo all’uranio. Chi tocca muore. Devo partire per salvarmi dal veleno delle cattive abitudini Come quella di vivere sempre in riserva, come se abitassi al pronto soccorso.
Voglio ritrovare il contatto con il mio ruggito interiore e farlo fluire al di fuori di me.
Il Bagaglino (si fa per dire)
Parto senza uno specchio così mi sentirò libera di essere bella comunque. Parto senza il sacco a pelo, tanto là fa caldo e due chili in meno sulle mie spalle sono una consolazione. Giusi porta la tenda, ma finiremo per non usarla mai perché ci sarà sempre un ciclone dietro l’angolo che ci scoraggia a piantarla. Non ho portato neanche il tagliaunghie per risparmiare 10 grammi di peso. Lo shampoo solo in campioncini. Il sesto giorno presi una saponetta, la spezzai alla maniera della divisione dei pani e dei pesci per farla bastare per tutto il viaggio. Gli ultimi giorni ho fatto la doccia con last al limone (sperando nell’effetto citronella). Ma la miglior arma contro le zanzare è l’olio di Melaleuca. Io e il mio The Tree Oil eravamo diventati inseparabili. Era la mia droga di viaggio, un pronto soccorso efficace. Ma chi ti sta vicino ti odia. La Giusi, aveva cominciato ad odiarmi. L’odore forte di questo rimedio fa ubriacare le zanzare ma fa impazzire gli umani.
Avrei voluto essere nei luoghi senza una mappa, per non dover impegnarmi troppo a raggiungerli. Sarebbe stato bello farsi trasportare dai paesaggi senza prefissarsi una meta. Lasciarsi sedurre dai tramonti, dai profumi della foresta o dai bagliori del cielo che sovrasta una spiaggia. Vestirsi solo con due gocce di chanel n. 5 e non sentire mai freddo. E non essere mai punta dalle zanzare. Partir leggera, per un più agevole duello coi miei limiti, per snobbare le mie fragilità e le mie paure. “Perché parto?”, mi chiesi mentre terminavo i bagagli.
Parto per dissociarmi dal tempo che ‘mangia la vita’. Per farlo rimanere l’alimento che mi fa crescere anziché invecchiare. Parto per ripulire, archiviare, resettare, alleggerire, rallentare. Voglio camminare al ritmo dell’ascolto. Ritrovare l’equilibrio tra il dovere e il gioco, la regola d’oro degli aborigeni. Coloro che restano al di fuori del tempo, liberi da esso. Il tempo per loro è l’alba che si trasforma in tramonto, è il ritmo delle stagioni. Parto per risvegliare lo Shamano che è in me, così assopito dagli stordimenti del mondo che corre. Vorrei ritrovar la calma, la ricettività, la memoria delle cose e delle persone trascurate, l’osservazione, la deduzione, l’attenzione, l’ascolto.
Cerco l’emozione del ‘qui e ora’ tra le braccia dell’Australia.
Parto per prendere il meglio dalla mia solitudine. Non è una fuga. E’ già tutto affrontato, anche se non completamente risolto. Non parto per ritrovare me stessa perché in fondo non mi sono mai persa. So che è già tutto dentro di me, anche l’Australia. L’andare là è un incontro con l’altra parte di me, quella che contiene l’oceano, le spiagge bianche, il profumo degli eucalipti, il serpente arcobaleno, l’onda che travolge, la medusa che punge, il sole che brucia fra l’alba e il tramonto, la minaccia del ciclone che fa parlare il vento, il deserto rosso di passione e di silenzio.
Fibrillazione 1 marzo
Nevicava a dirotto. Il treno che ci portava verso Roma era ben deciso ad arrivarci nonostante il brutto tempo. Poi, all’improvviso, è collassato, indipendentemente dalla neve. Si è rotta la motrice, troppo opsoleta per completare il viaggio. E pensare che, proprio allo scopo di evitare imprevisti che ci facessero ritardare abbiamo preso il treno precedente a quello che sarebbe comunque arrivato in orario. Infatti quello lo abbiamo visto sorpassarci mentre eravamo ferme tra i monti pieni di neve, lontano da qualsiasi stazione o persona o anima che ci potesse soccorrere. Dopo un’ora di attesa della motrice nuova in arrivo da qualche stazione ferroviaria dei dintorni, non eravamo ancora disperate. Recitavamo il Sutra del Loto e basta… e finalmente la motrice arrivò, ma arrivò dalla parte sbagliata. Anziché trainarci verso Roma ci ha riportato indietro verso Orte. Per ordini dall’alto, ci hanno detto, forse qualche dirigente delle ff.ss laureato a Harward. Fu il contrattempo fatale. Quello che ci fece arrivare all’aeroporto appena in ritardo per rimanere a piedi, quando ancora l’aereo era in pista ma pronto per il decollo. Affrontammo con rabbia il disastro italiano che si ripete ogni giorno. A volte fa vittime negli ospedali, a volte nelle scuole, altre sulle strade. . Ma le coincidenze o le non coincidenze non arrivano mai per caso. Perdere l’aereo ha avuto i suoi vantaggi. Lo racconterò più avanti, quando mi renderò conto che è stato una specie di ‘sliding doors’.
Du bai?
Passammo la notte Romana da Allì Babbà, un amico conosciuto durante un viaggio in Marocco, dove gli è stato accollato questo simpatico soprannome. Da allora ci piace chiamarlo così. Il giorno dopo per non rischiare che piantassimo la tenda a casa sua (lui la chiama Casa della famiglia Adams, tanto è lugubre nel suo esterno) ci ha tirate giù dal letto di buonora.
Alle sei di mattina corremmo all’aeroporto per paura di imbatterci in qualche altro contrattempo. Alle tredici del due marzo duemilaquattro eravamo già con le cinture allacciate, pronte per il grande volo, quello che in tutti i sensi doveva aiutarci a spiegare le nostre ali alla ricerca dell’Australia con l’aiuto del Budda, che in quel preciso momento non sapevamo se era ancora dentro di noi, se ci aveva abbandonato o se non lo abbiamo mai avuto.
“L’aereo perso non è caduto. E neanche questo cadrà. Perché dovrebbe? Tra qualche ora saremo a Dubai. E proprio là, incontreremo, forse, lo sceicco che non avremmo incontrato prendendo l’aereo di ieri. E magari proseguiremo il viaggio con lui, che forse già possiede un veliero, pronto ad aspettarci nel porto di Sydney… “Mioddio quanto sfarzo in questo aeroporto dorato!”. Il caldo ancora non si sente, anzi, l’aria condizionata è così potente che ho bisogno di una sciarpa e ho le dita congelate… Poi mi riscaldo lo sguardo osservando i lampadari d’oro massiccio e le colonne scintillanti come gli sguardi degli arabi. I loro occhi fanno paura, sanno di mistero profondo.
I duty free nei corridoi vendono gioielli esposti come frutta nelle bancarelle del mercato. Non ci sono guardie giurate nei dintorni. Non servono. I ladri stanno alla larga perché il furto viene punito con amputazione delle mani. Ci fa molto piacere, siamo più rilassate nel custodire i nostri bagagli.
Una suite ci aspetta all’Hotel Millennium di proprietà della Emirates. Lì passeremo la notte prima di raggiungere Sydney, facendo finta di essere ricche.
L’aereo per Sydney è partito alle 10 e 30 da Dubai . Quindici ore di volo. Ho dimenticato la melatonina e non ho pensato di prendere il tavor. Rannicchiata e indolenzita per ore, vedo una sagoma avvolta in una coperta color ocra. Ho già avvistato Ayers Rock e i monti Olgas. Sento un ruggito costante emergere dalla stessa coperta. Alle cinque di mattina c’è già il passaggio delle balene col suo concerto fra le onde. Credo di aver sentito anche le campane. Ma quelle forse le ho sognate.
Ho provato ad ascoltare Beethoven, la musica araba, ho recitato mantra tibetani , ho sniffato la puzza di piedi del viaggiatore dirimpettaio. Ma senza chiudere occhio. E allora sono andata in bagno a fare il bucato (durante un vuoto d’aria mi si è rovesciato addosso il vassoio con il cibo appena servito. Ho steso i panni con due mollette e un filo portati da casa, incastrando il filo negli sportelli dei portabagagli sopra di noi. Tanto dormivano tutti. Anche le hostess e gli stuarts. Con l’aria condizionata sparata al massimo si sarebbe asciugato tutto in quindici minuti. Senza lasciare tracce, prima che le luci del giorno penetrassero dagli oblò, prima che tutti si togliessero la mascherina grigia davanti gli occhi e prima che qualcuno smettesse di russare imitando il barrito degli elefanti, il ruggito del leone e il lamento delle balene, io avrei raccolto il bucato, smontato lo stendipanni e indossato di nuovo i miei vestiti (nel frattempo mi ero arrotolata la copertina come se fosse un pareo. Se andare in Australia doveva essere una prova di coraggio, quella più grande si era consumata prima ancora di atterrare. Vedendo quell’immagine mi è venuto in mente di fotografarla e proporla per uno spot pubblicitario della Emirates: ‘Fly confortable, feel like home’. Mi sono resa conto di aver fatto una napoletanata. Ripresa la lucidità ho pensato ” Devo smetterla di frequentare i corsi di pensiero creativo. Prima o poi mi arrestano”.
Per passare le ultime ore di volo ‘ammazzando il tempo’ (Dio non me ne voglia, son sicura che un giorno mi pentirò anche di questo) faccio qualche passeggiata tra i corridoi. Una trekker soffre a tenere le gambe ferme. Guardo le facce intorno e cerco di capire se c’è qualche italiano tra i passeggeri. Faccio finalmente un avvistamento. Un ragazzo dalle meches color oro sta leggendo la Lonely planet, forse ci può dare qualche consiglio dove passare la prima notte a Sydney. Ancora non sappiamo se la passeremo stese su una panchina nei botanic gardens, all’aperto sotto il bay bridge o se andremo direttamente in qualche ristorante a fare la piadina in cambio di vitto e alloggio.
Sydney
La prima cosa di cui mi sono preoccupata dopo l’atterraggio non è “dove dormirò stanotte” ma “riuscirò a prenotare un trekking alle Blue Montains per oggi?” (erano le sette di mattina e quasi quasi avrei anche potuto farcela. Ma prima, forse, era meglio depositare i bagagli).
Il giorno a Sydney è trascorso sotto forma di vagabondaggio a piedi nella zona portuale. Camminammo attraverso un parco dove pipistrelli enormi stavano con la testa in giù appesi ai rami di alberi tropicali. Sembravano lì solo per spiare le nostre goffe escursioni da turiste anarchiche, ancora ignare dei reali pericoli del luogo. Sembravano tante vecchiette sui balconi di Napoli, col copricapo nero, pronte a ficcare il naso sui fatti dei nuovi vicini di casa per il semplice gusto del pettegolezzo. E poi l’iguana, ferma su una pietra restò immobile per tanto tempo spacciandosi per una scultura (non siamo poi tanto fesse). E così, in preda all’euforia della bellezza emergente dalla baia piùbelladelmondo, un po’ confuse dal jet lag, ci ubriacammo della brezza marina facendo una gita in barca per assaporarne meglio i profumi e le tonalità. Esauste, tornammo all’Ostello separatamente. Io non potevo evitare di strordirmi di shopping nel momento cruciale dei saldidifinestagione. “Non rimando mai a domani quello che posso fare oggi. Metti che nel deserto non trovo abbastanza souvenirs è meglio avvantaggiarsi”. Ero così cotta che non riuscivo a ritrovare il mio Backpackers perché non me ne ricordavo il nome e nemmeno l’indirizzo.
“Madunena senta…….”
Blue Montains 5 marzo 2004
Trekking bellissimo. Ma sono stanca come se qualcuno mi fosse passato addosso con un rullo compressore. Le Blue Montains sono rossastre ma non rocciose, la vegetazione è intensa così come l’azzurro del cielo che le sorveglia, un cielo vaporoso e denso di profumo di eucalipti, grazie all’olio che si espande nell’aria e che conferisce loro una tonalità ‘blue’. Appunto. Abbiamo visto i primi canguri. Le prime volte li scambiavo per pecore. Un’emozione, così come il sole australiano sulla pelle. Al ritorno, il minibus che ci riporta a Sydney passa attraverso villaggi che mi ricordano la California. Ricchi di icone che evocano la vicinanza spumeggiante del mare: uomini con infradito e braghe corte che girano con il loro inseparabile sotto braccio, il surf.
6 marzo 2004 Si parte per Melbourne, Shumacher ci aspetta
Il viaggio non è la meta. Decidiamo di spostarci in pulmann. Primi vagiti di disapprovazione della mia compagna di viaggio. Già mi accusa di decidere tutto io e siamo solo al terzo giorno. “Madunena senta…tenme bona”. Io mi sento molto Kerouac, non so cosa si senta lei. Comunque io vorrei vedere cosa c’è tra i due poli. Tra Sydney e Melbourne, voglio vivere passo per passo il cambio di panorama, di clima, le metamorfosi della natura che, per almeno ottocento chilometri sembra ancora molto verde. Ogni tanto, lontano dalla strada , vedo tappeti di erba rasata. Sono campi da golf. Ai bordi dei fiumi, distese di speranza. E’ l’umidità prima del deserto. Dopo Camberra i prati gialli mi ricordano che l’orzo e il grano non sono ancora tagliati. Gli eucalipti spuntano come chiazze verdi che si lasciano sballottare da un vento bizzarro e incostante. Nel panorama bicolore, la lotta tra il giallo e il verde sostiene il verde. E’ là che dimorano mandrie sonnecchianti di bovini neri. Sostano sotto gli alberi come indiani intorno a un fuoco, consumando il loro rito quotidiano del non far niente, aspettando il susseguirsi di albe e tramonti, gli eventi che scandiscono il ciclo delle giornate. E in mezzo alla mandria una bestia più imponente, forse un toro, forte delle sue corna, sembra un capo tribù al colmo della sua autorevolezza.
Ho dormito rannicchiata in posizione fetale per circa quattro ore. Continuo a guardare quel finestrino rivolto a est e vedo chiazze nere che sembrano mucche. Si stanno radunando in cerchio. E’ in atto un ‘mucca convention’. Hanno l’atteggiamento di chi sta confabulando. Forse un prossimo sciopero del latte. Più lontano vedo chiazze nocciola che suppongo siano pecore, anche se all’inizio le scambiavo per canguri. Ho saputo che le pecore australiane hanno problemi di vista a causa del sole accecante. Mi viene da belare. I miei occhi sono massacrati dalla troppa luce, nonostante gli occhiali scuri. Non faccio altro che vedere canguri col pelo ricciuto. Il sole si sta preparando al tramonto ma è ancora troppo acceso. Vorrei essere sola in questo momento, scendere dal bus, avviarmi per i campi e iniziare un vero duello con la natura. Prepararmi il giaciglio sotto un eucalipto per respirare i suoi vapori balsamici, farmi aprire le narici e far entrare l’energia e la bellezza di questo paese meravigliosamente insidioso. Fare una comunione con la ‘pacha mama’ oceanica.
La solitudine non è molto interessante. Meglio condividere. Se penso alla giapponese che ho incontrato ieri nelle Blue Montains, mi viene tristezza. Sorrideva solo alla sua macchina fotografica, quando era in procinto di farsi una foto con l’autoscatto.
06 marzo 2004
Alle undici della sera il greyhound di turno ci ha scaricate al bus terminal di Melbourne e la Shelley è arrivata poco dopo a prelevarci, come da accordi, per rendere la massima ospitalità a casa sua. Però, quella sera, non si poteva andare a casa senza passare per Lygoon Street, il quartiere italiano, e respirare l’aria festaiola che precedeva il gran prix di formula uno. Le icone della Ferrari erano ovunque. Ho persino mangiato la pizza ‘ferrari’ al posto della consueta ‘ortolana’. E’ bello stare al gioco. Mi sento flessibile e creativa.
07 marzo 2004
Dal grande schermo della piazza principale seguiamo fin dal mattino i preparativi alle corse. Grande eccitazione ovunque. Vediamo la faccia simpatica di Valentino Rossi che commenta, poi si va a vedere un po’ di arte aborigena e a mangiare sushi e sashimi nel lungofiume affollato di gente e bancarelle. Dopo pranzo ci inoltriamo clandestine nell’ascensore dell’albergo più alto di Melbourne per gustarci la città dall’alto e provare a seguire un tratto di pista dove sfrecciano ancora le Ferrari. Più tardi, dai sorrisi di un gruppo di appassionati con bandierina in mano apprendiamo che la Ferrari ha fatto il bis con Shumi e Barichello sul podio. Che peccato che non possiamo festeggiare con la piadina!
Serata allo zoo per il concerto mezzo country e mezzo jazz della serie ‘Twilight in the zoo’. Sembrava la festa dell’Unità. C’era un gran odore di salsicce, ma ci mancava tanto il ‘lisio’.
08 marzo 2004
Oggi abbiamo programmato la gita lungo la ‘ Great Ocean Road’, il top dei panorami oceanici. Siamo partite senza sapere che ora era e a che ora saremmo tornate. Gli orologi quà non servono. Quelli appesi in casa di Shelley mi confondono un po’ perché ognuno segna un’ora diversa. Va bene così. L’importante è partire. Cesta pic-nic e musica di Van Morrison, Simply Red, Annie Lennox e Dire Straits. Il serbatoio pieno. Il tea tree oil e la protezione solare non mancavano. Ci sentivamo le tre grazie ‘on the road’. Sapevamo dove stavamo andando ma non avremmo potuto perderci. E non facevamo caso alle nuvole che ci seguivano. In quel momento avevamo il sole dentro di noi.
09 marzo 2004
Caro Diario, vorrei poterti scrivere che:
– la notte riesco a dormire nonostante i suoni gutturali delle balene, il soffio della locomotiva e il barrito di pachidermi sognanti. Sto snocciolando eufemismi per dire che qualcuno sta russando in modo evocativo…
– mi sono candidata a sindaco di Melbourne e ho deciso di non tornare perché qua si sta da DDio
– ho ammazzato un pitone e mi farò fare un paio di stivali da cow girl con tacco pericoloso
– ho superato i miei limiti e le mie tristezze e in Italia non mi rivedrete più (solo se pagate una grossa taglia)
– sto nel momento senza pensare a quello che farò domani e non mi pungono più le zanzare…..
– sono stata rapita da un surfista innamorato….
Fine del diario del 9 marzo
10 marzo 2004
Viaggio in bus direzione Adelaide. Percorso gradevole, allietato dalle vicine di poltrona. Due vecchiette canadesi stanno facendo il tour dell’Australia e cerchiamo di convincerle a venire nel deserto con noi. La figlia ha settantacinque anni, la madre novantaquattro. Sono due fenomeni. La figlia in un momento di euforia declina l’invito a seguirci nel deserto e dice che lei sa dove è stata ma non sa mai dove sta andando. Ho pensato che forse questa è la zia di Kerouac. Non si perderà mai. Arriviamo ad Adelaide……… Serata con tanto tanto tanto Sushi… “evviva …ho superato la paura dell’epatite…”.
11 marzo 2004
Australia, vaff………….. Mi sono svegliata imbubbonata con ventiquattromilamorsi di non so quale strano insetto o ragno o scorpione. Mi gratto fino all’inverosimile mentre sto rischiando di perdere il fuoristrada che mi porterà a Kanguroo Island. Cerco di imitare Marlo Morgan, colei che ha imparato dagli Aborigeni ad innalzare la soglia del dolore! Quando marciava scalza nel deserto rosso, coi piedi invasi da mille spine, lei distoglieva l’attenzione dal male. Cerco di imitarla per evitare il prurito che mi percorre come una scossa elettrica, visualizzando una situazione piacevole (io nel letto con Russell Crowe o Mel Gibson). Afferro il mio zaino, dopo essermi guardata fugacemente nello specchio del bagno e controllato il fiorire della primavera rossa sul mio viso e sul mio corpo. Lancio una seconda imprecazione all’Australia. Penso a quando dovrò affrontare i coccodrilli, i serpenti e le meduse mortali. Sono già sfinita al pensiero ma il clacson suona e io mi precipito a partire per Kanguroo Island. Se c’è un Dio e se io sono veramente Budda, vado là e torno con un serpente in bocca.
12.3.04
Io non sono Marlo Morgan, ma lo diventerò, in nome del Budda che è in me. A Kangoroo Island ho bevuto acqua piovana, ho visto un canguro agonizzante, senza svenire, ho fatto colazione sopra un tronco di Eucalipto rovesciato (avrei preferito farlo sopra il tronco di un surfista abbandonato), mi sono svegliata col frastuono dei cinquettii di uccelli corposi e colorati. Dormito in un letto di acari e polvere che ho cercato di ignorare. E pensare che la mia pelle ancora martoriata dal prurito di ponfi vermigli era pronta per un nuovo sole, per nuove carezze di luce.
E’ vero che la vita è una lotta continua ma io avrei voluto, almeno in vacanza, fare una tregua.
Sono ancora a Kangoroo Island. Non ho l’orologio, ho il telefono spento, non so che giorno è. Sto imparando la lentezza. Abbandono l’idea di cavalcare il tempo in modo forsennato come se conducessi l’attacco di una battaglia vincente. Paradossalmente, vincere è perdere il tempo per farsi ritrovare da lui in qualsiasi momento.
Kanguroo Island è un’isola selvaggia, mi trovo in sintonia con questo ambiente. E’ stato bello raggiungerla e rendersi conto che c’è una natura intatta, rispettata, coccolata. Poco cemento, poco turismo, molta attenzione per la conservazione degli agi della fauna e della flora. I koalas sono dei gran timidoni curiosi, le istrici animaletti mafiosi (intouchable). Le iguane un po’ malandrine. Mimano gli animali imbalsamati come forma di difesa. Ti fanno credere di essere finte. I pinguini sono riservati e timorosi. Ti guardano come per dirti “Cosa vuoi da me?”. L’aquila di mare domina la pianura rossa macchiata di eucalipti. I Kanguri sono così ingenui che ancora non hanno capito la lezione. Continuano ad attraversare le strade incuranti delle auto che passano. Scelgono sempre l’ora del tramonto per suicidarsi.
La foca è l’animale che più mi ha conquistata. Assieme ai leoni marini, è quella che vive nel modo più piacevole (secondo me). Questi mammiferi hanno molto in comune con gli umani. Soprattutto con i napoletani o i messicani: sono sempre in siesta. I leoni marini ricordano l’uomo, la foca, la donna. Nel pensare comune se uno ti dice che sei una foca lo prendi come un insulto, perché è un’allusione all’essere imbranate o goffe o stupide. Oggi ho imparato l’intelligenza, la sensibilità e la dolcezza delle foche. Le foche in quattordici giorni imparano a svezzarsi, a sopravvivere cacciando cibo e acquisiscono la più raffinata arte della sopravvivenza. Da adulte sono ammaliatrici dei loro maschi. Li sanno coccolare come vere geshe, senza sottomettersi. Le ho osservate stese al sole. Prima surfano sulle onde col fare atletico dei grandi campioni del mare, poi si stendono sulla sabbia lasciandosi scaldare dal sole. Sanno dosare le loro energie riservandone un po’ anche per gli imprevisti. Sono maestre di sopravvivenza, quando, in caso di attacco da parte di uno squalo, riescono a guarire da sole le loro ferite. Sono un po’ shamane e un po’ streghe. Mentre quei ‘lulloni’ dei leoni marini, dopo diciotto mesi di vita, ancora vengono allattati e si fanno fornire il cibo dalla mamma anche quando sono cresciuti (fanno come i single in carriera che a trentanni mangiano ancora dalla mamma). Io credo che il massaggio body to body l’abbiano inventato le foche. Sono bellissime quando si impettiscono mostrando al sole la loro parte più nascosta, orgogliose dopo aver cavalcato le onde più alte. Poi, forti della loro generosità, appoggiano con dolcezza il muso sul dorso del compagno e lo percorrono per tutta la lunghezza facendovi aderire il petto. E lo coccolano dolcemente, compiaciute del loro modo di darsi e di stare insieme. Hanno l’arte dolce della mamma e della seduttrice. Ma una volta sole, sanno sopravvivere, anche agli squali. E possono vivere tranquillamente senza quei ‘lulloni’ dei loro maschi. Sanno amare senza dipendere. Grandi maestre per tutte le single del mondo!
Oggi è l’ultimo giorno sull’sola. Ho fatto sand board su una duna detta ‘little sahara’, un piccolo angolo di Africa a Kangaroo Island. Bel modo di congedarmi da questo paradiso di nuvole bianche. Dai suoi strati di azzurro indefinibili, la sua atmosfera selvaggia. Le strade di terra rossa, gli eucalipti, i koalas.
13.03.2004
Oggi grande trepidazione, si parte e attraversa il deserto a bordo del Ghan, il treno che arriva fino all’estremo nord dell’Australia. Ventidue ore di viaggio. C’è un bar-ristorante, i cuscini e persino le docce. Prima di partire due operaie delle ferrovie australiane hanno pulito i vetri del treno, per farci ammirare meglio le bellezze che incontreremo. I due più bei momenti: il tramonto rosa e l’alba , infuocata tra il rosso della terra e quello del sole nascente dietro una pianura senza confini, dove l’aria si unisce con la materia e bruciano insieme all’esordio di un nuovo giorno. Potrebbe essere l’ingresso all’inferno. Col passare dei minuti il sole fa esplodere tutta la sua energia, la sua intensità cromatica. Manifesta il suo potere sul mondo. Non a caso gli orientali praticano il saluto al sole con la ritualità di una preghiera. Gli Incas lo adoravano come il Dio supremo : fonte di vita, di luce, fertilità e saggezza. In quell’alba, stamattina, ho visto la linea di confine tra la vita e la morte, tra l’allegria e il dolore, tra la luce e il buio. Ogni tanto la linea veniva interrotta dalla sagoma di un animale o di un albero. Forse sto farneticando in preda a una forma di sindrome di Stendhal. Troppa bellezza in un colpo solo…
16.03.04
Partenza per il safari: Ayers Rock, Olgas, King Kanyon. Tour scomodo, spartano, polveroso, eccitante. Sporco ma bello all’idea di non aver paura di farlo. La notte sotto le stelle mi attrae. Stregata dalla croce del sud dimenticherò i pericoli che il buio nasconde . Chiuderò gli occhi dopo aver contemplato Venere, stretta nella morsa del mio sacco a pelo. Il cielo australe mi pungerà l’anima.
17.3.04
Ayers Rock è la stessa emozione del Machu Pichu. Ho sentito l’energia del luogo sacro. E’ un gigante pietrificato, imponente, magico e rosso di rabbia. Popolato da energie forti. I folletti del dreamtime sembrano essere ancora là, dispettosi e tenaci. Attaccati all’impossibile. Sono diventati un tutt’uno con il luogo. Come i politici con le loro poltrone. E il popolo fedele, drogato dalle sue convinzioni, vive il presente con l’apatia di chi non ha più speranza, se non il ricordo di un passato da sogno, dove l’uomo moderno non era ancora arrivato a fare massacri sulla natura. Gli aborigeni sembrano tante ombre scure sotto gli eucalipti. Diseredati senza sorriso. Corpi estranei in una società che corre con scarpe comode, mentre loro si ostinano a mantenere il contatto con la terra vagando a piedi nudi, estremità callose e insensibili alle insidie. Strappati dalle loro radici come alberi destinati a rinsecchire, oziano in una specie di oblio confortato dall’alcol. Sembrano bestie vestite di colori sgargianti per inventare un carnevale quotidiano. Il loro ‘pituri’, le foglie di tabacco che usavano come narcotico, ha lasciato il posto alle droghe moderne. Si sfregiano bevendo birra, coca cola e mangiando da mc donald . E il dijeridoo non è altro che un’icona nostalgica . Non è più un suono vibrante ma un grido di dolore.
Ho camminato intorno al perimetro di Ayers Rock e ho scelto di non salirci. Un segno di rispetto per le anime aborigene.
20.3.04
Alice Springs è una macchia verde dentro un deserto rosso. Geograficamente potrebbe essere una las Vegas sobria. E’ un’oasi in un mare di niente. Popolata di mucche scarnite che sopravvivono ai bordi del centro e dai corpi senz’anima di aborigeni gitani. E’ una città polverosa, malinconica. Quando esco dal Melanka Hostel ho due opzioni. A destra si va in centro, a sinistra si va all’Emergency. Adoro l’Emergency, è un luogo di meditazione. Si aspetta per ore. I pronti soccorsi sono diventati il mio museo alternativo. Lì trovi tutti i reperti della società contemporanea. E tutti i repertori.
21.3.04
Escursione a Mc Dowell Ranges. Ho respinto le zanzare col pensiero. Faccio esperimenti di telepatia. Gioco a fare la Marlo Morgan nei momenti più difficili. A volte mi arrendo concedendomi ai miei limiti e alle mie paure irrisolte.
Oggi si vola verso Cairns, la foresta pluviale, il reef. Questa è la prova più dura dopo il deserto, poi si dovrebbe andare in discesa. C’è un ciclone in agguato che mette a rischio il nostro volo. Speriamo che scoppi a piangere subito così quando arriviamo è già sereno.
22.3.04
Non è andata così. Un ciclone nuovo sta cercando di insinuarsi nei nostri programmi, una specie di virus che sballa tutto. L’arrivo al Calypso Hostel ci avvolge nella sua umidità. Domani non si può fare nulla, niente Reef, niente Cape Tribulation. Niente coccodrilli e bagni alle Gole di Morsmen. Dobbiamo solo aspettare che passi la minaccia. Decidiamo di trascorrere una giornata a Palm Cove, sul mare. Scendiamo dal bus dopo mezz’ora di tragitto. Sembriamo due extra comunitarie appena scese da un gommone e approdate in un’isola felice per soli ricchi. Ci sentiamo un’ po’ corpi estranei ma proviamo ad integrarci. La nostra mise da vacanza è molto discutibile. La mia soprattutto. Se in Italia vestissi in questo modo mi arresterebbero. Oggi è il primo giorno di riposo vero, niente ostacoli, niente lotte. L’importante è: non fare il bagno perché ci sono le meduse mortali, non stare al sole più di mezz’ora altrimenti ti cuoci come una bistecca . Dopo trequartidora sono già ‘well done’. La mia pelle frigge anche se sono stata sotto una palma. Oggi poteva essere tregua, le zanzare erano a riposo. Spero che la mia pelle non cada a pezzi. Sono tutta ‘on fire’.
E stanca di questa vita zingara. Mi manca la morbidezza dei miei agi!!!!!!!!!!!!!!!!
23.3.04
Un altro ciclone minaccia le nostre certezze. La barca che ci sta portando al reef traballa. Il mare è cupo perchè assorbe il grigio delle nuvole. Decido di non scendere in acqua fino a che un baldo giovane dall’aria gaia non mi prende per mano e mi rassicura. Ho battuto il record dell’immersione più breve. In cinque minuti ho visto pesci blu e gialli. Ho visto Padre Pio e la Madonna. La maschera si è appannata e smesso di avere visioni risalgo la scaletta con l’affanno come se mi avesse rincorso un pescecane. Io e l’oceano non andiamo d’accordo, non mi concilierò mai con lui. Non ho vinto la paura di essere inghiottita dagli abissi. Ho visto la mia buddità stare a galla e specchiarsi nell’acqua. Ma solo per pochi minuti. Sto lasciando quà solo un pezzo della mia paura, per esser più leggera al ritorno.
Tutto perfetto. Il momento è magico perché il sole non mi ha tradita. Il ciclone si allontana. Gli squali dormono. Difendo i miei occhi con occhiali scuri perché ancora ho tanto da vedere. Il sole insidiosamente generoso li minaccia. Comincio a pensare e sognare in inglese. Madunena senta l’è ora da arturné a chesa!
24.3.04
Volo per Brisbane. Perfetto. La foresta sub tropicale sarà meno minacciosa, le giornate più rilassanti. La est coast era già programmata per il riposo. Io e Giusi scegliamo di separarci per avere un riposo più personalizzato. Io nel verde tra i serpenti, lei al mare tra i delfini. Così impariamo anche la solitudine da viaggio e l’indipendenza assoluta. Ci priviamo anche di molte piccole comodità. Adesso sai che se vai alla toilette tutti i bagagli devi portarteli appresso, perché non c’è più lei che te li protegge con il suo sguardo antifurto. Al bus terminal di Noosa Heads mi scappa forte, ho fame, ho sete. E devo girare con venti chili di bagagli. Troppo pesanti. Capisco che è giunto il momento di liberarmi di qualcosa o di riflettere sul fatto che avrei potuto lasciare la tenda a casa visto che non riesco a piantarla. Il ciclone perseguita le mie intenzioni. Così, anziché il campeggio scelgo ancora una volta l’ostello. Ne avvisto uno su una collinetta dentro la foresta sub-tropicale. Lo raggiungo a piedi, trascinando i miei zaini, sempre più pesanti. Non c’è posto perché non ho prenotato. Qui è diverso, se non si prenota, si dorme all’aperto. Torno indietro amareggiata. Questa volta in discesa. Lascio scivolare i miei fardelli, sempre più rovinati dall’asfalto e ritorno al punto di partenza: il bus terminal. Mi lascio cadere all’indietro su una panchina, mentre il mondo gira intorno. La stanchezza fisica e mentale sta per piegarmi le ginocchia. Mi sento osservata. La mia espressione di sconforto parla, quasi implora un miracolo. Sono sudata, stropicciata, sfinita. Apro un dialogo interiore con la parte più sincera di me, che si chiede: “Perché sono qui? Forse per dimostrare che ce l’avrei fatta? O forse per imitare Marlo Morgan?”.
Sono disidratata e mi concentro su una bottiglia di acqua minerale, ne divoro il contenuto. Tutto quello che bevo non si sparge tra le cellule ma arriva diretto sempre li, in vescica. E l’acqua che ingurgito non alimenta il mio corpo ma trova la via più breve per uscirne. Sembro più che mai una ‘boat woman’ appena sbarcata da un gommone. Gli autisti dei bus di tutta l’Australia si sono sparsi la voce e quando vedono una bionda con tre bagagli a mano e uno zaino immenso tirano dritto. Ormai sono segnalata in tutti gli stati, dal Queensland al South New Wales, dal Victoria all’Outback
Sono una specie di ‘non-wanted’ perché chiedo sempre una mano quando è ora di alzare i bagagli.
Sfogo le mie rabbie del momento in un dialogo muto, tra me e me: “Cari australiani antipatici, vorrei ricordarvi che vi siete appropriati di questo paese meraviglioso senza pagare alcun pedaggio, senza guerre, né lotte. Non avete nemmeno ringraziato il Capitan Cook che vi ha aperto la strada ‘ a gratis’. Gestite ristoranti facendo credere di saper cucinare la pasta e poi se una compagnia di bus decide di assumervi, dopo che avete fatto fallire il ristorante, non vi degnate di aiutare una lady italiana ‘extra comunitary looking’ a tirar giù o a caricare i bagagli”.
Dopo le imprecazioni, prima di capire cosa farò la notte, trascino i miei bagagli portandoli al bagno.
Sono pronta a svenire. Forse. O a cercare un’altra destinazione per la notte. Qui gli ‘homeless’ non sono accetti. Nel bel pieno delle turbolenze mentali vedo da lontano avvicinarsi una speranza. Un pulmino con la scritta Melaluka Hostel si è fermato vicino alla mia panchina. Peter, il suo autista, nonché gestore dell’Ostello, sta aspettando clienti. Gli chiedo se io posso aggiungermi alla lista. Mi dice di si. Sono salva. Questa sera si dorme al coperto. Non gli chiedo il prezzo, né dove si trova. Va tutto bene.
All’arrivo una nuvola di acari si solleva mentre appoggio lo zaino sul letto. Per riflesso comincio a grattarmi. Sento il prurito invadermi anche il cervello. Come quando ho la sensazione che mi spuntino foruncoli solo guardando la nutella.
E’ un bel posto, nonostante gli acari. L’oceano è di fronte, nascosto dietro le palme. Basta scendere una scalinata e già il suo ruggito si fa più vivo.
Domani andrò a Fraser Island . Lì troverò l’acqua morbida, tutti i toni del blu, le spiagge bianco-rosa, la foresta sub-tropicale, le lucertole giganti, i dingos e qualche squaletto biondo che mi chiederà “where are you from?”.
25.03.04
Guardo il sole e so che al mattino, se lo vedo appoggiato sull’oceano come una finestra di luce arancione sono le sei. Quando arriva dietro le dune sono le dieci. Poi, mi gira intorno e quando sto in giardino a spalmarmi l’aloe vera sulla pelle arsa, aspettando di pranzare, si nasconde dietro i panni stesi. Verso il tramonto perdo le sue tracce, forse cala dietro il promontorio verde.
Per risalire devi affondare. Quel giorno all’arrivo a Noosa Heads sono affondata e risalita in fretta. E’ stato come aver perso una moneta di metallo e trovarne una d’oro. Quel giorno è stato il mio ‘big wednesday’. L’alta marea, la luna crescente, l’incontro con Hugh.
26.3.04
Mi ha vista per la prima volta in giardino, quando stanca morta, triste e sola, ho lasciato affondare la mia pesantezza nella branda soleggiata, accanto alla pianta d’Aloe. Facevo la turista smarrita, tra folate di vento oceanico, odore di sale, e la luce accecante del sole pomeridiano. Ignara degli occhi che mi scrutavano curiosi dal giardino accanto, sentivo il fruscio dei panni stesi e la presenza di qualcuno in procinto di raccoglierli. Poi, la sera, qualcuno ci ha fatto incontrare. Il muso triste di Mac che aveva appena chiuso un storia d’amore con la sua ragazza coreana è stato il dettaglio galeotto. Presa da compassione e da un senso di cameratismo solidale gli ho passato il libro che avevo comprato ad Alice Springs, più per curiosità che per necessità: ‘How to mend a broken heart’. Così , la sera, uscimmo tutti insieme a bere un bicchiere, a camminare lungo l’oceano mentre Hugh spiegava il fenomeno delle maree collegato alla luna piena. E tra un passo e un sorriso ci mostrava la croce del sud esaltando la bellezza dell’oceano di notte e la sua voglia di tuffarsi e sfidare il suo ruggito minaccioso.
28.3.04
Hugh profuma di sandalo. La sua stanza è un tempio disordinato. Non c’è un guardaroba, solo tre borse di tela appoggiate sul pavimento ricoperto di un tappeto chiaro. Quelle borse sono il suo passato e il suo presente e mi dicono che lui vive di cose essenziali e non ha bisogni superflui. Nella borsa del suo passato ci sono le numerose cravatte che indossava sotto il camice di ricercatore nell’industria nucleare. L’uranio è stato il suo pane per diversi anni ma anche il suo più grande nemico. E quando ha capito che era ora di rinunciare al pane piuttosto che darsi al lento suicidio di una minaccia dalle dimensioni sconosciute ma intuibili, lasciò quel lavoro pieno di grandi promesse e di eccellenti guadagni. Ha fatto suo il concetto di qualità della vita. Molti lo vivono come uno slogan. Per lui è una filosofia. Come l’attenzione a se stesso e alla propria crescita. E così facendo ha rimesso tutto in gioco, giocando la sua vita in un’altalena dove la forza di gravità è più forte della spinta verso l’alto. Quando crollano le sicurezze economiche, a volte crollano anche gli affetti, quelli meno autentici. La sua compagna ha cominciato a scalpitare. Il denaro non bastava più. Ma lui, al benessere economico ha scelto la vita. E’ rimasto intatto col suo equilibrio, con le sue convinzioni. Ha abbracciato la coerenza. Per questo è solo. Del suo passato ha conservato solo le cravatte e un abito grigio, appeso alla maniglia della porta della sua stanza. Una chitarra, le foto di tre piccoli tesori biondi, un disco in vinile di Leonard Cohen.
Un senso di precarietà permea la sua vita in modo così positivo che quasi mi stupisce. Vive simbolicamente su una zattera ma è una zattera felice. Vorrei salirci anch’io.
30.3.04
Lui ama lavare la sua stanchezza nell’oceano. “This is my shower and my bliss”. L’acqua marina è una specie di acqua santa, il suo sacramento quotidiano. Vive con le stesse modalità di un viaggiatore. Sembra in vacanza. Nel senso di precarietà sta il suo equilibrio. Innamorato della vita ha saputo difenderla con le rinunce. Alle sei di mattina prepara il suo té, lo sorseggia in giardino e, prima ancora di scendere in spiaggia a salutare l’alba, guarda le nuvole. Da una prima occhiata alla loro forma capisce se il vento le spazzerà via. Saluta la sua giornata con un sorriso anche quando l’oceano è minaccioso. Lui non ha paura e il suo senso di calma permane anche quando il ciclone minaccia turbolenze. Conosce l’oceano e i suoi segreti. Quando si tuffa tra i flutti immergendosi nella loro benedizione quotidiana, sa quando arginare la loro prepotenza.
Lui ha la dolcezza e l’ingenuità del bambino, il sogno dell’adolescente, la passione dell’uomo e l’istinto del buon selvaggio. La sua felinità lo rende sensuale nello sguardo. Le labbra svelano con misurata generosità la bellezza del suo sorriso, degli occhi marroni con i toni dell’henné. Non porta gli occhiali perché non vuole barriere tra lui e il mondo, tra il mondo e le sue emozioni. Raccoglie le vongole e cattura i pesci con le mani, come un vero indigeno. Me li porge come se fossero gioielli, per arricchire i nostri spaghetti quotidiani. Il sapore di mare rimane nelle sue dita, mentre apparecchia la tavola col pareo colorato. Quello che la sera prima ha usato come lenzuolo. Quello che dopo il bagno ha coperto le sue nudità. Questo è un vero esempio di utilizzo creativo delle cose.
31.3.04
Hugh spirito aborigeno, delicato, fantasioso, selvaggio. Osserva le nuvole e sembra dirigerle con la sua volontà, spingendole dolcemente dietro la collina verde di foresta sub tropicale. Il suo sguardo è leggero e morbido come le piume di emu. Di notte segue il trasformarsi della luna e mi spiega il fenomeno delle maree. Lui dice che l’oceano è come un vecchio saggio severo. Devi imparare ad ascoltarlo per poterti fidare di lui. Stamattina alle cinque, ho avuto la benedizione di Hugh. Alle sei ho avuto quella del sole, quando siamo scesi in spiaggia, col cestino della colazione. Ho fatto yoga, ho offerto le mie nudità all’oceano che mi ha dato la terza benedizione quotidiana.
1.4.04
Passeggio lentamente sulla sabbia bagnata, verso la collina verde, promontorio da dove mi spiano gli dei. Penso a lui. Il mio ultimo dio. Anche oggi abbiamo ringraziato l’universo col nostro rito mattutino. Due farfalle nere con chiazze bianche, mi stanno girando intorno. Sembra una danza esplorativa intorno alla mia aura. Gli estremi lembi delle onde si addentrano sempre di più nella riva, spazzando via le impronte di chi è passato prima. Massaggiano i miei piedi, preparandoli a un nuovo giorno. Sto imparando ad ascoltarmi connettendomi con la voce dell’oceano, vecchio rude rassicurante come il guardiano di un faro. Ho fatto il bagno nuda in questa spiaggia così deserta e così popolata di spiriti buoni e invisibili. L’oceano ha lavato le mie ansie, mi ha spogliata di tutte le impalcature mentali. Come in un battesimo mi ha depurata di fardelli non scelti.
Mi sento felice, serena, appagata. Dentro di me c’è l’atmosfera di festa come quando in campagna si celebra un raccolto e la mietitura arriva generosa. Forse sto raccogliendo i frutti di un albero meraviglioso che ho piantato senza accorgermi. Guardo la spiaggia piena di buchi. Solo ora capisco che quei piccoli tunnel sono rifugi di gamberi bianchi leggeri come ragni.
Good bye Melaluka. E’ stato bello arrivarci. Odiare i suoi acari. Svegliarmi coi rimproveri dell’oceano arrabbiato di mattina presto. Spalmare la linfa di aloe sul mio corpo arso dal sole.
Nei miei occhi i colori della spiaggia dorata, il ricordo di un sonno profondo tra due braccia forti. Le nostre anime rannicchiate sotto il sarong profumato di sandalo. Un groviglio di energia fresca, luminosa. Mi chiede di partire con me e passare il week end a Byron Bay. Posso solo rispondere si. Vedremo i delfini, cammineremo nella foresta sub tropicale, ci arrampicheremo fino al faro. Da lassù riverseremo tutto il nostro benessere sul mondo. La gioia di essere là, ospiti di una suite very sweet, con giardino di palme, letto con lenzuola che sanno di mare e di fiori del paradiso. Buon pesce con salsa di mango, preparato da lui mentre faccio la doccia e aspetto il massaggio quotidiano con lozione di gelsomino, stirandomi come una gattina innamorata. Osservo l’energia del mio sorriso nello specchio del bagno e odo la voce dolce del mio miracolo vivente. Domani ci saluteremo ma non sarà un addio. Byron Bay sembra l’osservatorio del mondo. I delfini i nostri angeli che ci osservano da sotto, aspettando l’onda giusta per giocare a nascondino e ricomparire all’improvviso stupendoci.
Hugh ha aperto la porta della mia anima. Toccandola ha trasformato le mie paure in musica. Il mio fango in fiori di loto.
E’ stato bello salire su quella ‘zattera’ e assaporare la precarietà, l’esperienza del presente, delle cose essenziali . E capire che le paure sono come onde, se sai prenderle per il verso giusto, passano innocue. Devi solo riconoscerle e attraversarle. L’Australia è stata l’ onda più grande della mia vita, quella che trasportava in sé il mio ‘big wednesday‘.