Marzo-Aprile 2005. Un mese prima di partire inciampai su un testo di Silvia Rodriguez Borges.
La vita è un viaggio anche quando si rimane a casa. Ed io, tra una partenza e l’altra, mi diletto ad esplorare testi sacri e profani in cerca di sagge intuizioni, fino a quando non poso i miei occhi su qualcosa che ispira le mie scelte. Quel brano recitava così: “…un istante nella mia vita è come un punto nella linea retta e quello che scelgo in ogni momento è ciò che darà forma al mio tragitto. In ogni istante posso reagire o scegliere, creare con le mie paure o le mie azioni, morire o vivere, lamentarmi o imparare, colpevolizzare o responsabilizzarmi, fallire o riemergere dalle mie ceneri, sentirmi vittima o prender consapevolezza del mio potere interiore…cosa scelgo in ogni istante della mia vita?”. E così, senza darmi una risposta, né scritta, né orale, decisi di partire ancora una volta. Ho sempre bisogno di uno zaino pronto e di un passaporto che mi traghetti altrove. Non per fuggire ma per esplorare ed osservarmi in contesti alieni. Per sperimentare, conoscere, allargare gli orizzonti del mio sguardo e del mio pensiero. Per vivermi in luoghi che non mi appartengono ma che possono rendermi flessibile, ammorbidendo i miei schemi. Depurata da maschere. Pronta a saltare tutti gli ostacoli come un canguro adulto.
Eccomi quà, Montevideo sarà per qualche giorno il mio sguardo sul mondo. E’ una città globalizzata come tante, ma nell’aria sento un’atmosfera diversa. Lungo le strade un cartello pubblicitario grida: ‘Es tu energia, cuidala!’ (è la tua energia, abbine cura). Questo è un bel benvenuto. Sembra un incoraggiamento a volersi bene, a tenere alta la qualità della vita. Questo paese ha una sensibilità superiore. Mentre indugio in bei pensieri, più avanti il mio occhio attento va su un’insegna che recita ‘Taller que crea con ternura’ (Laboratorio che crea con tenerezza). Fantastico! Le parole energia, tenerezza, esperanza e felicidad, sono ricorrenti. E non solo nei graffiti. Vanno lette nei sorrisi e negli sguardi della gente. E poi la parola ‘liberdad’. Qualcuno, all’ingresso di un palazzo, ha scritto: “El sueno de la liberdad està en la realidad de eligir dìa a dìa lo que queremos vivir” (il sogno della libertà sta nella realtà di scegliere giorno per giorno ciò che desideramo vivere). Questo paese mi piace, ‘tengo ya la piel de gallina’.
Sono quà in una triplice missione: visitare un’amica rimpatriata di recente, caricarmi dell’energia ‘buena’ del sur, fare una verifica presso un progetto permanente dell’associazione A.s.m.o (associazione medici odontoiatri , successivamente conglobata in ‘Smile Mission’). Quella che mi ha portato in Africa e che ha progetti di volontariato allo scopo di promuovere sorrisi in tutto il mondo, curando le bocche dei poveri, soprattutto bambini. In questo paese il ‘dulce de leche’ ha fatto molti danni ai denti di tutte le età.
Nel poco tempo che ho trascorso a contatto con il Colegio San José, primo progetto dell’associazione A.s.m.o., ho appreso tanto sul loro bellissimo concetto di educazione: ‘educar es ensenar a vivir. No se trata de hacer el aula un lugar interesante, sino de hacer aprendizaje una experiencia emocionante. Se trata de lograr una buena educaciòn dìa a dìa. El acto de educar es la garantìa de la evoluciòn de la vida a condiciones mejores y de la construcion de conocimiento’.
Il Cerro è il quartiere che ospita il progetto, presso il Colegio San José, gestito dai padri oblati di Maria. Padre Pippo mi spiega che i padri oblati sono specialisti in missioni come altri lo sono nell’evangelizzazione. E’ il quartiere più povero di Montevideo e registra un alto tasso di omicidi e suicidi. E come in altri luoghi al mondo, la classe media è andata scomparendo ed esistono solo i ricchi e i poveri. Di recente il popolo è riuscito ad eleggere Tabaré, un uomo di sinistra molto stimato da tutti. La vera promessa del futuro uruguayo sta in quest’uomo e nella sua consorte, che è molto impegnata nel sociale e determinata nel ristabilire un equilibrio per ridare un senso alla vita dei più sfortunati. Mentre Papa Woytila viveva la sua agonia io ero là e le televisioni di tutto il mondo erano sintonizzate su quell’evento. L’Uruguay ha vissuto con grande partecipazione questo doloroso lutto e c’è una cosa che mi è rimasta impressa nella memoria ed ha acceso una grande stima per il nuovo presidente. La famiglia di Tabaré ha partecipato ai funerali del Papa a Roma recandosi a sue spese, senza usare il budget di Stato. Credo questo sia un gesto encomiabile, forse unico nella storia della politica. Il lutto che hanno vissuto i membri della famiglia presidenziale è qualcosa di privato e autentico. Questo è bello.
L’Uruguay è un paese del ‘Sur’ e come tale è permeato dalla lentezza, soprattutto al di fuori delle grandi città. ‘Aqui, corre solo el viento’. Che bel motto! Ai bordi della città le case hanno un nome evocativo. E questo le caratterizza. Girando in bicicletta per i quartieri di Atlantida ho visto una casa in riva al mare a forma di becco d’aquila. L’ha costruita un marinaio creativo. Le sue uniche finestre sono gli occhi del rapace. Non lontano da questa vedo un cottage dal nome ‘Sin apuro’ che significa ‘Senza problema’. Un’altra al lato mostra orgogliosa la scritta ‘casa progresista’. Comincio a sentire una discreta emozione che dirompe quando approdo davanti la casa di Pablo Neruda. Leggo nella sua facciata dai colori vivi: “Bajo los pinos la tierra prepara pequenas cosas puras…Junto al abierto estuario de la Plata me devolvais no solo a la miel del amor y su delicia, sino a las circustancias mas puras de la tierra …”
Grazie Pablo per avermi dato un’altra scossa di ‘piel de gallina’!
Adriana è l’amica rimpatriata da poco in Uruguay dopo aver vissuto anni deludenti in Italia. La sua casa è il mio punto d’appoggio e nelle ore libere da compiti missionari al Colegio San José, condividiamo le nostre gioie e le nostre deboli malinconie. Abbiamo deciso di passare la ‘semana santa’ da turiste fuori città. Affittiamo un auto e si parte: io pago, lei guida. Fiat 1, bagarozzo che cigola già ai primi chilometri trascorsi , direzione Minas (patria di Gardel, il famoso cantante di Tango). Adriana ha dimenticato la bombilla per il mate ma è felice lo stesso. Beviamo solo acque alle fonti, durante il tragitto siamo circondate da eucalipti che ci inebriano con il loro profumo balsamico. Sembrano un esercito in una distesa verde. La prima tappa notturna: Lagunas de los cuervos. Que incanto! Il cielo si apre, giusto in tempo per svelarci un tramonto rosso come il fuoco di un camino, che mostra le sue lingue rosa e fuxia per farle scomparire in uno sfondo giallo luce, intenso come un’alba allegra. Questo è il paese dai mille ‘aves’ (uccelli). Il mio cielo Uruguayo si sta tingendo di voli di corvi che osservo da un quadro bucolico. Avrei potuto scambiarli per condors. Planano lenti, a fianco della Sierra di Arequita. Sono la voce del silenzio di questo posto che non ha niente a che fare con il paradiso: è molto di più. Io mi sento un esemplare di fauna umana che quà indossa la propria corona, impugna il proprio scettro. Mi sento imperatrice di questo lembo di terra ‘pintada’ di commoventi tonalità di verde. I miei piedi scalpitano, non vedono l’ora di percorrere il sentiero della laguna de los cuervos. Domani forse, prima di partire per il ‘Salto del Penitente’, alle 6 del mattino vedrò l’alba tra gli eucalipti. Spunterà dalla sierra che scruta sfacciatamente il nostro camping e ne domina il tappeto erboso come un faro vigila sul mare. La laguna è il fiume che costeggia il camping. Il giorno vola nell’ozio e nella contemplazione delle meraviglie naturali. Verso sera il fruscio di una barchetta rompe il silenzio. Poi comincia il concerto dei grilli, che si esprimono come sempre, in qualsiasi luogo della terra, mimetizzandosi timidamente. E’ un solletico alle mie orecchie mentre provo ad abbozzare un saluto al sole con lo sguardo a ovest, avvolta in una luce arancione dorato. Che bello essere quà, lontana dagli affetti ma vicina al mio sentire, al mio battito interiore, al mio scalpitare curioso fra le pieghe dell’Universo. Mi sento un bambino arrivato all’improvviso nel mondo delle fate e degli elfi. Il cielo si fa sempre più scuro, punteggiato di lentiggini luminose. La notte sogno la meta del giorno dopo ed è una premonizione. Il Salto (ovvero la cascata) del Penitente è senza acqua a causa della siccità. Sogno avverato: abbiamo visto i corvi che volavano intorno ma il salto non c’era. Una cascata senza acqua è come un fuoco spento. Ma siamo felici lo stesso. La natura ripaga e riempie i nostri occhi di bellezze. La luna crescente mi fa sentire forte in questa stupenda avventura. Entro nella sua luce ed esco senza sentire freddo.
Ogni viaggio è come il ‘pampero’, il vento del Rio de la Plata. Scuote le tue certezze, non sai se ti risucchia nei suoi vortici o ti lascia vivo. Fa fluttuare le tue radici e quando è delicato si limita a sollevarti le chiome, gonfia le tue gonne e le tue camicie larghe, arrossa i tuoi occhi e trasforma l’acqua del Rio in una salsa color ocra, densa e cupa come il cielo che riflette i suoi malumori. Strappando via l’allegria dei colori diventa ‘sucio’.
Dopo le brevi escursioni di semana santa passate con Adriana riprendo la mia mission, mi muovo verso altre mete per raggiungere i luoghi di altri progetti A.s.mo.
Oggi sono a Colonia de Sacramento. Mi ha accompagnata Julio, un amico di Adriana Siamo giunti quà con la sua Volksvagen anni’70, rossa come il fuego e lucida come una stella che brilla giorno e notte. Si è offerto a fare da guida per alcune ore, in attesa di imbarcarmi su un ‘Greyhound’ uruguayo che mi cullerà durante il mio ‘on the road tour’.
Colonia è bella, un piccolo centro storico racconta il suo passato, una mescla tra portoghese e spagnolo. Julio ha tutti i denti finti, sputacchia mentre parla, mi dice che è un meccanico (lo sapevo già, per questo ho accettato di salire sul suo bolide da museo). Viaggiare con un meccanico è rassicurante, come viaggiare su un’ambulanza.
Pranziamo in un ristorante basso costo, offro io, che già mi sento come una turista americana a Venezia. Mentre si mangia lui parla, parla, parla e sputacchia. Lo sopporto a lungo perché l’argomento è interessante, verte sui sopravvissuti delle Ande. La mia curiosità non cede agli inconvenienti della conversazione con salivazione eccessiva. Mi racconta di essere amico di uno dei sopravissuti, ora famoso cardiologo. Ogni anno, si reca con lui nel punto in cui cadde l’areo e rinvennero i corpi della sorella e della madre (del cardiologo). Sopravvivo meglio ai suoi racconti conditi di saliva che ai rantoli della vecchia Volksvagen senescente, accasciatasi più volte ai bordi della strada. Prima di iniziare il mio viaggio in solitario verso Salto, coccola termale con ‘agua caliente’, e ripartire alla ricerca della missione di Achar, Julio si preoccupa di informarsi a che ora parte il bus mentre io entro in una libreria per comprare ‘Diario de motocicleta’. Voglio continuare il mio viaggio a fianco del ‘Che’. Leggendo i suoi racconti mi fornirò del carburante giusto per provare ad imitarlo.
Julio è servizievole, un vero ‘garzone’ diremmo noi. Non l’ho ‘affittato’ per necessità ma per fare un’opera buona. Il mio buddha interiore, cresciuto a dismisura in questi ultimi tempi, mi mette spesso in condizione di sacrificarmi per fare al prossimo quel che il prossimo non mi chiede. Se avessi preso il bus il viaggio sarebbe costato meno ma il mio spirito missionario deve permeare tutto il tragitto, non solo la meta finale. E così la mia presenza ‘rubia’ lo ha onorato ‘ademas’ di una mancia di duecentopesos. Soledad e solidaridad sono andati a braccetto per tutto il giorno. Alle sei de la tarde sono già sul bus, col mio zaino blu, il cappellino da figlia dei fiori e il mio libro intriso dell’essenza del ‘Che’. Mi sento un cavallo sciolto, senza sella, né briglie, con gli occhi abbagliati dai toni del tramonto. L’erba è color smeraldo, bagnata dai riflessi di luce e dai primi strati di umidità serale. Dai finestrini vedo paesaggi alternarsi come diapositive, mentre inserisco le cuffie che portano alle mie orecchie il brivido della musica di David Gray ‘A new day at midnight’, seguita da ‘What freedom means to me’. Gusto il piacere di una solitudine introspettiva, costruttiva, che fruga indiscreta dentro di me, per cercare, senza sforzarsi troppo, il gusto dell’indipendenza, della libertà da attaccamenti. Siamo io e il mondo, io e il mio ruggito. Si fa buio, il buio cupo del ‘campo’ disabitato dove le uniche luci sono stelle e un quarto di luna calante. Nonostante l’impegno degli astri, il luogo fa paura. Mi sento in mezzo al niente. Finch’è era giorno vedevo campi verdi, adesso forse sono ancora là, ma trasformati dal buio in qualcosa di impalpabile. Un qualcosa che ha potere sulle mie debolezze e mi inquieta. Mi chiedo cosà farò se, una volta giunta alle terme di Salto alla ‘Posada del Siglo’, il luogo dove vorrei alloggiare, non ci sarà posto. Vagherò sola fra le stradine sterrate in cerca di una tettoia sotto la quale accovacciare le mie stanchezze e far svenire le mie paure. La mente sta ricamando mostri su una tela bianca. Devo fermarla.
Todo bien, todo bien. Il sole del mattino seguente, assieme al sonno profondo della notte passata in un letto caldo e comodo, aiuta a placare le ansie, e smorza la paura di restare sola e non farcela. Giorno di assestamento alle terme di Salto. Colazione fra ricchi ai bordi di piscine con agua caliente. Che bella coccola la solitudine agiata!
Nella Posada, al mio arrivo, ieri sera, erano in procinto di chiudere la reception. Vagavo tra i sentieri del suo immenso giardino punteggiato di piscine termali, come se fossi in un labirinto. Non ne venivo a capo, e intanto passavano i minuti, non sentivo più neanche il peso dei bagagli, incollati alle mie mani come se fossero un tutt’uno. E il mio zaino ormai era diventato un grosso foruncolo sulla mia schiena, sentivo che sarebbe esploso da un momento all’altro, assieme alle mie spalle arrossate. E mentre gli occhi scrutavano le insegne al buio come un gatto disperato, una voce maschile da dietro un cespuglio, asciugamano avvolto intorno alla vita, come un gladiatore uscito da una vasca da bagno, mi chiede curioso ‘de donde vienes’ (da dove vieni) invece di chiedermi ‘que busques?’. (cosa cerchi). Bene, aveva capito perfettamente che cercavo l’ingresso e lui, prima ancora di aspettare la risposta mi indicò la reception. Maledizione alla mia brutta abitudine di non prenotare mai, affidandomi alla perfezione dell’universo! Mi appioppano una stanza da tre letti. Siccome non è disponibile quella singola (così mi dicono ma non ci credo), pago il prezzo triplicato ma sorrido lo stesso. In fondo sono solo trentotto dollari e per una italo-americana come me non è poi così insostenibile.
Mas o meno all’ora di colazione sanno che c’è un aliena in sala. Da un’italiana si aspetterebbero due occhioni neri, i capelli corvini e un aria da ‘oh sole mio’. Invece quando mi vedono seduta, pensano che sia scandinava, una ‘mujer abierta’, ojos azules y cabello rubio.
E allora qualcuno si avvicina curioso. Quà la maggior parte della gente è di origine italiana. Hanno nomi e cognomi italiani e hanno una grande nostalgia del paese dei loro avi, che non hanno mai conosciuto. E’ una forma di amore sincero per tutti coloro che vi appartengono. Me compresa. Mariela e Pasquale, una giovane coppia di Montevideo in vacanza con la figlia Maria Sol, diventano subito amici offrendosi di farmi da guida e scarrozzandomi con la loro auto. Bella questa gente, bella davvero. Hanno la luce negli occhi e il cuore come un sole. Si capisce da come ti guardano e da come ti abbracciano. Danno calore.
Quando ci si presenta, in questo paese, hanno una dolce abitudine, ti salutano con una stretta di mano e con un bacio. Anche fra colleghi, ogni mattina, assieme al buongiorno, il bacio. Mi piace questa cosa. E mi piace anche il fatto che in certi luoghi così lontani ci si possa sentire come a casa. A due passi da qui c’è un monumento a Padre Pio. Nello stesso luogo, dove circola una energia particolare, sono successi miracoli. Ci sono persino tracce di dischi volanti. Un mistero non ancora chiarito ma che dà un’aria mistica a tutto quello che c’è intorno. La fede è un fuoco che brucia senza consumare nulla. Sposta i pensieri, colloca altrove le ansie, e certe volte, all’improvviso, proprio mentre stai dicendo a te stesso ‘ma cosa ci faccio io in questo angolo di mondo’ ti scaraventa in luoghi, dentro di te, dove trovi anche le risposte che non cercavi.
Caro Che, ogni giorno che passa, divoro le tue pagine con occhi avidi. I brani di oggi sono un inno alla natura. La mia sigla quotidiana coincide con le tue stesse sensazioni: “Mirando el mar comprendimos que nuestra vocaciòn, nuestra verdadera vocaciòn era andar eternamente por los caminos y mares del mundo. Siempre curiosos….el mar es como la imagen de la liberacion absoluta…ya siento flotar mi gran raìz libre y desnuda……… la mujer es siempre mas tierra que mar…” Sento che parlavi di me, anche quando dicevi: “caminàbamos despacio temerosos de interumpir la paz del santuario agreste…”:
San Gregorio de Polanco. Eccolo, il villaggio più ‘pintoresco’ del Rio Negro. Dopo le terme di Salto, approdo quà, accompagnata da una signora anziana che viene dal Canada. Grassa come tutti gli americani che mangiano burro di arachidi e pop corn, che pranzano da Mc Donald e non hanno amore per se stessi. L’ho adottata per due giorni. Lei parla solo inglese e nessuno la capisce, a parte me. Questo le comporta spesso dei disguidi: pur essendo con le intenzioni diretta a nord, si ritrova al sud, dirottata da mille incomprensioni. Oggi siamo partite da Tacuerambò con lo stesso bus e condivideremo la meta San Gregorio de Polanco . Io da figlia dei fiori in missione, lei da vacanziera programmata minuto per minuto. Arriviamo alle otto de la tarde in questo posto tanto bizzarro di giorno quanto desolante di notte. La notte quà è più buia della disperazione. Il paesino è un agglomerato diviso in quadras, strade tutte uguali che formano una scacchiera. Sembra il far west. Ogni viuzza ha un nome o un numero. Io le vedo tutte uguali. L’unico riferimento è il Rio Negro. Di notte, anche lui, ha paura. Ho chiesto all’autista del bus di lasciarmi vicino al Rio. Il Parador ‘Los medanos’ mi dicono, è come un Grand’Hotel, bello, con vista sul fiume. Caro, ma non per me, che ho deciso di concedermi anche qualche agio da figlia dei fiori di lusso. Oggi mi sento figlia delle rose o delle orchidee. Ieri ero figlia delle margherite e mi sentivo molto capretta (la capra è l’animale che assomiglia di più allo spirito femminile, quello che se la cava in ogni situazione, quello che la determinazione ti salva sempre).
Oggi sono un leone e stanotte voglio un duello col fiume, coi suoi imprevisti, le sue piene, le sue secche improvvise, i suoi ruggiti, le sue violenze agli alberi, alle dune, a tutto quello che lo circonda.
La notte è passata veloce, il sonno pesante e compatto. La mattina dopo, bagnata da una pioggia delicata e calda, ho girato il paese con una bicicletta presa a prestito dalla segretaria dell’albergo. Era senza freni. In discesa, verso il Rio Negro e col soffio del Pampero alle spalle, ho planato al punto da non poter evitare di investire un piccione. Il Rio Negro attraversa tutto il paese, un po’ come il Po in Italia. Il suo corso è sinuoso, serpentino. Le coste frastagliate, selvagge, ampie come quelle che accompagnano l’oceano. E ricche di dune dove cresce erba già secca. Quando capita di mangiare una bistecca dura, si dice che arriva dalla costa del Rio in quanto le mucche si nutrono di erba di scarsa qualità. Intorno al grande fiume si formano aree paludose, desolanti e desolate, dove anche le zanzare, prima del mio arrivo, morivano di disperazione.
Intorno al Rio ci sono ampie chiazze di muschio verde brillante, alternato a pozze di acqua lasciate dai suoi ritiri. Acqua santa per gli animali che vi si ristorano anche nei periodi di secca. Non mancano cavalli vagabondi che si contendono l’abbeveraggio con le mucche locali. A volte i cavalli sono allo stato brado, a volte appartengono a gauchi, che li cavalcano con fierezza. Il gaucho sta alla pampa come il cow boy sta al far west. Son personaggi originali, veraci. Statici sulla loro sella, col portamento da principi, troneggiano guardando lontano e di sbieco, come i ballerini di tango. Sempre solitari e misteriosi, coi mantelli d’altri tempi, in un paese dove il giorno sembra non passare mai. Hanno l’odore di terra e fieno nelle mani, le unghie bordate di nero, residuo di fatica ancestrale. Puzza di sterco negli stivali e nel mantello, impregnato di umidità salmastra e di polvere che sembra cipria. ‘La vuelta de mate’ come rito quotidiano, la chitarra attorno al fuoco mentre le vacche riposano. E nella mente l’immagine di una donna che non c’è. Nelle narici il suo profumo che arriva da lontano assieme a un ricordo. Nelle dita, la voglia nervosa di intonare una serenata e farla arrivare oltre l’orizzonte rosso del tramonto, a quella ‘lei’ che non potrà mai seguirlo nei suoi vagabondaggi.
Arroyo Belizas. Oggi il viaggio è un impasto di sudore e polvere. E’ un pensiero incosciente mentre il mio sguardo si perde tra i boschi di ombué, alberi anarchici anche con se stessi. Loro hanno un ciclo di diciannove anni. A tempo scaduto, scelgono quando è il momento di lasciarsi morire oppure ricominciare da capo. Io mi sento un po’ così. Gli ombué combattono con alberi che invadono la loro anarchia. Lottano contro le coronille e vincono sempre; forse sono alberi prepotenti. O forse sono semplicemente forti, imponenti e fieri della loro volontà. Gli ombué stanno al bosco come i camion stanno alla strada. Tutti gli altri li temono, per quel loro atteggiamento vincente che non conosce la paura. Vicino al bosco di questi guerrieri senza tempo, c’è l’Arroyo Belizas, un fiume pescoso ma di piccole dimensioni. Quà, a due passi dalla costa atlantica di Cabo Polonio ci sono le dune bianche. Dalla parte opposta distese di verde e invasioni di eucalipti, allineati come altrettanti guerrieri, un po’ invasori. Nelle acque generose del fiume, specialmente in periodi di luna piena, i pescatori si appostano al tramonto per iniziare la pesca del ‘camaron’ un gambero che risale dal mare. Sulla laguna di Castillos splendono da lontano le lanterne appoggiate sull’acqua , che con la loro luce danno al luogo l’effetto di un posto incantato che ha a che fare con le fate o le sirene. Il camaron viene attratto dalla luce e la pesca si fa abbondante. La luna, a volte, li attrae anche fuori dall’acqua. Per osservare meglio lo spettacolo facciamo un giro in barca, lento, come vuole la tradizione del ‘sur’. Scivoliamo via lungo le sponde del fiume mentre è sempre più buio. La luna pian piano sostituisce il sole che si accascia lentamente dietro la Sierra. La grande Dea si leva dai canneti col suo colore giallo ocra. Quando il giallo si trasforma in pastello riesce ad illuminare le sagome dei pescatori ai bordi, e, più in là, quelle delle mucche al pascolo, come immagini di cartone ritagliate nel cielo. Brucano chine verso l’erba generosa idratata dall’ultima pioggia. Sono quasi immobili, in una specie di contemplazione. Icone sacre, nel santuario campestre che la natura offre in queste ore della mia primavera uruguaya. Sembra un dipinto in una tela blu cobalto, reso leggibile da Lei. La luna da sola domina la scena, che non è ripetibile a parole. Si può solo sentire, ascoltare le vibrazioni del suo silenzio e della sua luce, così orgogliosa che dimentica persino di esser solo un riflesso del sole.
“En primavera los suenos se vesten de colores…” . “Que necesitamos para crecer en el amor: compartir, perdonar, escuchar, dialogo, paciencia…”. Pensiero a ritroso…ricordando il merendero di Achar=Ascia. Per abbattere le malinconie della povertà, della desolazione del ‘campo.’..della pampa sconfinata. Là in quel piccolo nucleo di vite umane c’è una vitalità meravigliosa. Missione compiuta in un giorno. Visitato l’ambulatorio, preso appunti su quanto c’è già, quanto manca, quanto si sta facendo già e quanto c’è ancora da fare. Intanto i bambini continuano a mangiare dulce de leche…..le donne si inventano mestieri e producono cose che non comprerà mai nessuno. Curano la loro piccola serra di fiori che popoleranno solo la chiesa durante i matrimoni e il cimitero in occasione dei funerali.
Il parroco, padre Antonio, sarà sempre più il direttore di orchestra di anime a metà strada tra la voglia di fuggire e quella di restare. E la maggior parte di loro rimane, confortato dai colori della loro stessa allegria.
Dal museo precolombiano parole bellissime come queste, mi hanno fatto venire un altro attacco di ‘piel de gallina’: “el lenguaje del texil es un cuento de amor con palabras tejidas. Las mujeres tejen belleza, cancancio y dolor”. E ancora : “Si no fuera por la luna, no sabrìamos tejer”. (…”il linguaggio tessile è un canto d’amore con parole tessute. Le donne tessono bellezza, stanchezza e dolore…”Se non fosse per la luna, non sapremmo tessere…”
Così è stato il mio Uruguay. Un piccolo assaggio di America latina, di sud dolce e amaro. Un ricamo breve nella cartina geografica del mondo, tessuto con cura e mano leggera, fra bellezza, stanchezza e qualche lieve dolore. Dove la luna mi inseguiva, anche dietro le nuvole, per rispuntare di nuovo e illuminare il mio ottimismo notturno.
Per i lettori
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La meta es el camino...
Marzo-Aprile 2005. Un mese prima di partire inciampai su un testo di Silvia Rodriguez Borges.
La vita è un viaggio anche quando si rimane a casa. Ed io, tra una partenza e l’altra, mi diletto ad esplorare testi sacri e profani in cerca di sagge intuizioni, fino a quando non poso i miei occhi su qualcosa che ispira le mie scelte. Quel brano recitava così: “…un istante nella mia vita è come un punto nella linea retta e quello che scelgo in ogni momento è ciò che darà forma al mio tragitto. In ogni istante posso reagire o scegliere, creare con le mie paure o le mie azioni, morire o vivere, lamentarmi o imparare, colpevolizzare o responsabilizzarmi, fallire o riemergere dalle mie ceneri, sentirmi vittima o prender consapevolezza del mio potere interiore…cosa scelgo in ogni istante della mia vita?”. E così, senza darmi una risposta, né scritta, né orale, decisi di partire ancora una volta. Ho sempre bisogno di uno zaino pronto e di un passaporto che mi traghetti altrove. Non per fuggire ma per esplorare ed osservarmi in contesti alieni. Per sperimentare, conoscere, allargare gli orizzonti del mio sguardo e del mio pensiero. Per vivermi in luoghi che non mi appartengono ma che possono rendermi flessibile, ammorbidendo i miei schemi. Depurata da maschere. Pronta a saltare tutti gli ostacoli come un canguro adulto.
Eccomi quà, Montevideo sarà per qualche giorno il mio sguardo sul mondo. E’ una città globalizzata come tante, ma nell’aria sento un’atmosfera diversa. Lungo le strade un cartello pubblicitario grida: ‘Es tu energia, cuidala!’ (è la tua energia, abbine cura). Questo è un bel benvenuto. Sembra un incoraggiamento a volersi bene, a tenere alta la qualità della vita. Questo paese ha una sensibilità superiore. Mentre indugio in bei pensieri, più avanti il mio occhio attento va su un’insegna che recita ‘Taller que crea con ternura’ (Laboratorio che crea con tenerezza). Fantastico! Le parole energia, tenerezza, esperanza e felicidad, sono ricorrenti. E non solo nei graffiti. Vanno lette nei sorrisi e negli sguardi della gente. E poi la parola ‘liberdad’. Qualcuno, all’ingresso di un palazzo, ha scritto: “El sueno de la liberdad està en la realidad de eligir dìa a dìa lo que queremos vivir” (il sogno della libertà sta nella realtà di scegliere giorno per giorno ciò che desideramo vivere). Questo paese mi piace, ‘tengo ya la piel de gallina’.
Sono quà in una triplice missione: visitare un’amica rimpatriata di recente, caricarmi dell’energia ‘buena’ del sur, fare una verifica presso un progetto permanente dell’associazione A.s.m.o (associazione medici odontoiatri , successivamente conglobata in ‘Smile Mission’). Quella che mi ha portato in Africa e che ha progetti di volontariato allo scopo di promuovere sorrisi in tutto il mondo, curando le bocche dei poveri, soprattutto bambini. In questo paese il ‘dulce de leche’ ha fatto molti danni ai denti di tutte le età.
Nel poco tempo che ho trascorso a contatto con il Colegio San José, primo progetto dell’associazione A.s.m.o., ho appreso tanto sul loro bellissimo concetto di educazione: ‘educar es ensenar a vivir. No se trata de hacer el aula un lugar interesante, sino de hacer aprendizaje una experiencia emocionante. Se trata de lograr una buena educaciòn dìa a dìa. El acto de educar es la garantìa de la evoluciòn de la vida a condiciones mejores y de la construcion de conocimiento’.
Il Cerro è il quartiere che ospita il progetto, presso il Colegio San José, gestito dai padri oblati di Maria. Padre Pippo mi spiega che i padri oblati sono specialisti in missioni come altri lo sono nell’evangelizzazione. E’ il quartiere più povero di Montevideo e registra un alto tasso di omicidi e suicidi. E come in altri luoghi al mondo, la classe media è andata scomparendo ed esistono solo i ricchi e i poveri. Di recente il popolo è riuscito ad eleggere Tabaré, un uomo di sinistra molto stimato da tutti. La vera promessa del futuro uruguayo sta in quest’uomo e nella sua consorte, che è molto impegnata nel sociale e determinata nel ristabilire un equilibrio per ridare un senso alla vita dei più sfortunati. Mentre Papa Woytila viveva la sua agonia io ero là e le televisioni di tutto il mondo erano sintonizzate su quell’evento. L’Uruguay ha vissuto con grande partecipazione questo doloroso lutto e c’è una cosa che mi è rimasta impressa nella memoria ed ha acceso una grande stima per il nuovo presidente. La famiglia di Tabaré ha partecipato ai funerali del Papa a Roma recandosi a sue spese, senza usare il budget di Stato. Credo questo sia un gesto encomiabile, forse unico nella storia della politica. Il lutto che hanno vissuto i membri della famiglia presidenziale è qualcosa di privato e autentico. Questo è bello.
L’Uruguay è un paese del ‘Sur’ e come tale è permeato dalla lentezza, soprattutto al di fuori delle grandi città. ‘Aqui, corre solo el viento’. Che bel motto! Ai bordi della città le case hanno un nome evocativo. E questo le caratterizza. Girando in bicicletta per i quartieri di Atlantida ho visto una casa in riva al mare a forma di becco d’aquila. L’ha costruita un marinaio creativo. Le sue uniche finestre sono gli occhi del rapace. Non lontano da questa vedo un cottage dal nome ‘Sin apuro’ che significa ‘Senza problema’. Un’altra al lato mostra orgogliosa la scritta ‘casa progresista’. Comincio a sentire una discreta emozione che dirompe quando approdo davanti la casa di Pablo Neruda. Leggo nella sua facciata dai colori vivi: “Bajo los pinos la tierra prepara pequenas cosas puras…Junto al abierto estuario de la Plata me devolvais no solo a la miel del amor y su delicia, sino a las circustancias mas puras de la tierra …”
Grazie Pablo per avermi dato un’altra scossa di ‘piel de gallina’!
Adriana è l’amica rimpatriata da poco in Uruguay dopo aver vissuto anni deludenti in Italia. La sua casa è il mio punto d’appoggio e nelle ore libere da compiti missionari al Colegio San José, condividiamo le nostre gioie e le nostre deboli malinconie. Abbiamo deciso di passare la ‘semana santa’ da turiste fuori città. Affittiamo un auto e si parte: io pago, lei guida. Fiat 1, bagarozzo che cigola già ai primi chilometri trascorsi , direzione Minas (patria di Gardel, il famoso cantante di Tango). Adriana ha dimenticato la bombilla per il mate ma è felice lo stesso. Beviamo solo acque alle fonti, durante il tragitto siamo circondate da eucalipti che ci inebriano con il loro profumo balsamico. Sembrano un esercito in una distesa verde. La prima tappa notturna: Lagunas de los cuervos. Que incanto! Il cielo si apre, giusto in tempo per svelarci un tramonto rosso come il fuoco di un camino, che mostra le sue lingue rosa e fuxia per farle scomparire in uno sfondo giallo luce, intenso come un’alba allegra. Questo è il paese dai mille ‘aves’ (uccelli). Il mio cielo Uruguayo si sta tingendo di voli di corvi che osservo da un quadro bucolico. Avrei potuto scambiarli per condors. Planano lenti, a fianco della Sierra di Arequita. Sono la voce del silenzio di questo posto che non ha niente a che fare con il paradiso: è molto di più. Io mi sento un esemplare di fauna umana che quà indossa la propria corona, impugna il proprio scettro. Mi sento imperatrice di questo lembo di terra ‘pintada’ di commoventi tonalità di verde. I miei piedi scalpitano, non vedono l’ora di percorrere il sentiero della laguna de los cuervos. Domani forse, prima di partire per il ‘Salto del Penitente’, alle 6 del mattino vedrò l’alba tra gli eucalipti. Spunterà dalla sierra che scruta sfacciatamente il nostro camping e ne domina il tappeto erboso come un faro vigila sul mare. La laguna è il fiume che costeggia il camping. Il giorno vola nell’ozio e nella contemplazione delle meraviglie naturali. Verso sera il fruscio di una barchetta rompe il silenzio. Poi comincia il concerto dei grilli, che si esprimono come sempre, in qualsiasi luogo della terra, mimetizzandosi timidamente. E’ un solletico alle mie orecchie mentre provo ad abbozzare un saluto al sole con lo sguardo a ovest, avvolta in una luce arancione dorato. Che bello essere quà, lontana dagli affetti ma vicina al mio sentire, al mio battito interiore, al mio scalpitare curioso fra le pieghe dell’Universo. Mi sento un bambino arrivato all’improvviso nel mondo delle fate e degli elfi. Il cielo si fa sempre più scuro, punteggiato di lentiggini luminose. La notte sogno la meta del giorno dopo ed è una premonizione. Il Salto (ovvero la cascata) del Penitente è senza acqua a causa della siccità. Sogno avverato: abbiamo visto i corvi che volavano intorno ma il salto non c’era. Una cascata senza acqua è come un fuoco spento. Ma siamo felici lo stesso. La natura ripaga e riempie i nostri occhi di bellezze. La luna crescente mi fa sentire forte in questa stupenda avventura. Entro nella sua luce ed esco senza sentire freddo.
Ogni viaggio è come il ‘pampero’, il vento del Rio de la Plata. Scuote le tue certezze, non sai se ti risucchia nei suoi vortici o ti lascia vivo. Fa fluttuare le tue radici e quando è delicato si limita a sollevarti le chiome, gonfia le tue gonne e le tue camicie larghe, arrossa i tuoi occhi e trasforma l’acqua del Rio in una salsa color ocra, densa e cupa come il cielo che riflette i suoi malumori. Strappando via l’allegria dei colori diventa ‘sucio’.
Dopo le brevi escursioni di semana santa passate con Adriana riprendo la mia mission, mi muovo verso altre mete per raggiungere i luoghi di altri progetti A.s.mo.
Oggi sono a Colonia de Sacramento. Mi ha accompagnata Julio, un amico di Adriana Siamo giunti quà con la sua Volksvagen anni’70, rossa come il fuego e lucida come una stella che brilla giorno e notte. Si è offerto a fare da guida per alcune ore, in attesa di imbarcarmi su un ‘Greyhound’ uruguayo che mi cullerà durante il mio ‘on the road tour’.
Colonia è bella, un piccolo centro storico racconta il suo passato, una mescla tra portoghese e spagnolo. Julio ha tutti i denti finti, sputacchia mentre parla, mi dice che è un meccanico (lo sapevo già, per questo ho accettato di salire sul suo bolide da museo). Viaggiare con un meccanico è rassicurante, come viaggiare su un’ambulanza.
Pranziamo in un ristorante basso costo, offro io, che già mi sento come una turista americana a Venezia. Mentre si mangia lui parla, parla, parla e sputacchia. Lo sopporto a lungo perché l’argomento è interessante, verte sui sopravvissuti delle Ande. La mia curiosità non cede agli inconvenienti della conversazione con salivazione eccessiva. Mi racconta di essere amico di uno dei sopravissuti, ora famoso cardiologo. Ogni anno, si reca con lui nel punto in cui cadde l’areo e rinvennero i corpi della sorella e della madre (del cardiologo). Sopravvivo meglio ai suoi racconti conditi di saliva che ai rantoli della vecchia Volksvagen senescente, accasciatasi più volte ai bordi della strada. Prima di iniziare il mio viaggio in solitario verso Salto, coccola termale con ‘agua caliente’, e ripartire alla ricerca della missione di Achar, Julio si preoccupa di informarsi a che ora parte il bus mentre io entro in una libreria per comprare ‘Diario de motocicleta’. Voglio continuare il mio viaggio a fianco del ‘Che’. Leggendo i suoi racconti mi fornirò del carburante giusto per provare ad imitarlo.
Julio è servizievole, un vero ‘garzone’ diremmo noi. Non l’ho ‘affittato’ per necessità ma per fare un’opera buona. Il mio buddha interiore, cresciuto a dismisura in questi ultimi tempi, mi mette spesso in condizione di sacrificarmi per fare al prossimo quel che il prossimo non mi chiede. Se avessi preso il bus il viaggio sarebbe costato meno ma il mio spirito missionario deve permeare tutto il tragitto, non solo la meta finale. E così la mia presenza ‘rubia’ lo ha onorato ‘ademas’ di una mancia di duecentopesos. Soledad e solidaridad sono andati a braccetto per tutto il giorno. Alle sei de la tarde sono già sul bus, col mio zaino blu, il cappellino da figlia dei fiori e il mio libro intriso dell’essenza del ‘Che’. Mi sento un cavallo sciolto, senza sella, né briglie, con gli occhi abbagliati dai toni del tramonto. L’erba è color smeraldo, bagnata dai riflessi di luce e dai primi strati di umidità serale. Dai finestrini vedo paesaggi alternarsi come diapositive, mentre inserisco le cuffie che portano alle mie orecchie il brivido della musica di David Gray ‘A new day at midnight’, seguita da ‘What freedom means to me’. Gusto il piacere di una solitudine introspettiva, costruttiva, che fruga indiscreta dentro di me, per cercare, senza sforzarsi troppo, il gusto dell’indipendenza, della libertà da attaccamenti. Siamo io e il mondo, io e il mio ruggito. Si fa buio, il buio cupo del ‘campo’ disabitato dove le uniche luci sono stelle e un quarto di luna calante. Nonostante l’impegno degli astri, il luogo fa paura. Mi sento in mezzo al niente. Finch’è era giorno vedevo campi verdi, adesso forse sono ancora là, ma trasformati dal buio in qualcosa di impalpabile. Un qualcosa che ha potere sulle mie debolezze e mi inquieta. Mi chiedo cosà farò se, una volta giunta alle terme di Salto alla ‘Posada del Siglo’, il luogo dove vorrei alloggiare, non ci sarà posto. Vagherò sola fra le stradine sterrate in cerca di una tettoia sotto la quale accovacciare le mie stanchezze e far svenire le mie paure. La mente sta ricamando mostri su una tela bianca. Devo fermarla.
Todo bien, todo bien. Il sole del mattino seguente, assieme al sonno profondo della notte passata in un letto caldo e comodo, aiuta a placare le ansie, e smorza la paura di restare sola e non farcela. Giorno di assestamento alle terme di Salto. Colazione fra ricchi ai bordi di piscine con agua caliente. Che bella coccola la solitudine agiata!
Nella Posada, al mio arrivo, ieri sera, erano in procinto di chiudere la reception. Vagavo tra i sentieri del suo immenso giardino punteggiato di piscine termali, come se fossi in un labirinto. Non ne venivo a capo, e intanto passavano i minuti, non sentivo più neanche il peso dei bagagli, incollati alle mie mani come se fossero un tutt’uno. E il mio zaino ormai era diventato un grosso foruncolo sulla mia schiena, sentivo che sarebbe esploso da un momento all’altro, assieme alle mie spalle arrossate. E mentre gli occhi scrutavano le insegne al buio come un gatto disperato, una voce maschile da dietro un cespuglio, asciugamano avvolto intorno alla vita, come un gladiatore uscito da una vasca da bagno, mi chiede curioso ‘de donde vienes’ (da dove vieni) invece di chiedermi ‘que busques?’. (cosa cerchi). Bene, aveva capito perfettamente che cercavo l’ingresso e lui, prima ancora di aspettare la risposta mi indicò la reception. Maledizione alla mia brutta abitudine di non prenotare mai, affidandomi alla perfezione dell’universo! Mi appioppano una stanza da tre letti. Siccome non è disponibile quella singola (così mi dicono ma non ci credo), pago il prezzo triplicato ma sorrido lo stesso. In fondo sono solo trentotto dollari e per una italo-americana come me non è poi così insostenibile.
Mas o meno all’ora di colazione sanno che c’è un aliena in sala. Da un’italiana si aspetterebbero due occhioni neri, i capelli corvini e un aria da ‘oh sole mio’. Invece quando mi vedono seduta, pensano che sia scandinava, una ‘mujer abierta’, ojos azules y cabello rubio.
E allora qualcuno si avvicina curioso. Quà la maggior parte della gente è di origine italiana. Hanno nomi e cognomi italiani e hanno una grande nostalgia del paese dei loro avi, che non hanno mai conosciuto. E’ una forma di amore sincero per tutti coloro che vi appartengono. Me compresa. Mariela e Pasquale, una giovane coppia di Montevideo in vacanza con la figlia Maria Sol, diventano subito amici offrendosi di farmi da guida e scarrozzandomi con la loro auto. Bella questa gente, bella davvero. Hanno la luce negli occhi e il cuore come un sole. Si capisce da come ti guardano e da come ti abbracciano. Danno calore.
Quando ci si presenta, in questo paese, hanno una dolce abitudine, ti salutano con una stretta di mano e con un bacio. Anche fra colleghi, ogni mattina, assieme al buongiorno, il bacio. Mi piace questa cosa. E mi piace anche il fatto che in certi luoghi così lontani ci si possa sentire come a casa. A due passi da qui c’è un monumento a Padre Pio. Nello stesso luogo, dove circola una energia particolare, sono successi miracoli. Ci sono persino tracce di dischi volanti. Un mistero non ancora chiarito ma che dà un’aria mistica a tutto quello che c’è intorno. La fede è un fuoco che brucia senza consumare nulla. Sposta i pensieri, colloca altrove le ansie, e certe volte, all’improvviso, proprio mentre stai dicendo a te stesso ‘ma cosa ci faccio io in questo angolo di mondo’ ti scaraventa in luoghi, dentro di te, dove trovi anche le risposte che non cercavi.
Caro Che, ogni giorno che passa, divoro le tue pagine con occhi avidi. I brani di oggi sono un inno alla natura. La mia sigla quotidiana coincide con le tue stesse sensazioni: “Mirando el mar comprendimos que nuestra vocaciòn, nuestra verdadera vocaciòn era andar eternamente por los caminos y mares del mundo. Siempre curiosos….el mar es como la imagen de la liberacion absoluta…ya siento flotar mi gran raìz libre y desnuda……… la mujer es siempre mas tierra que mar…” Sento che parlavi di me, anche quando dicevi: “caminàbamos despacio temerosos de interumpir la paz del santuario agreste…”:
San Gregorio de Polanco. Eccolo, il villaggio più ‘pintoresco’ del Rio Negro. Dopo le terme di Salto, approdo quà, accompagnata da una signora anziana che viene dal Canada. Grassa come tutti gli americani che mangiano burro di arachidi e pop corn, che pranzano da Mc Donald e non hanno amore per se stessi. L’ho adottata per due giorni. Lei parla solo inglese e nessuno la capisce, a parte me. Questo le comporta spesso dei disguidi: pur essendo con le intenzioni diretta a nord, si ritrova al sud, dirottata da mille incomprensioni. Oggi siamo partite da Tacuerambò con lo stesso bus e condivideremo la meta San Gregorio de Polanco . Io da figlia dei fiori in missione, lei da vacanziera programmata minuto per minuto. Arriviamo alle otto de la tarde in questo posto tanto bizzarro di giorno quanto desolante di notte. La notte quà è più buia della disperazione. Il paesino è un agglomerato diviso in quadras, strade tutte uguali che formano una scacchiera. Sembra il far west. Ogni viuzza ha un nome o un numero. Io le vedo tutte uguali. L’unico riferimento è il Rio Negro. Di notte, anche lui, ha paura. Ho chiesto all’autista del bus di lasciarmi vicino al Rio. Il Parador ‘Los medanos’ mi dicono, è come un Grand’Hotel, bello, con vista sul fiume. Caro, ma non per me, che ho deciso di concedermi anche qualche agio da figlia dei fiori di lusso. Oggi mi sento figlia delle rose o delle orchidee. Ieri ero figlia delle margherite e mi sentivo molto capretta (la capra è l’animale che assomiglia di più allo spirito femminile, quello che se la cava in ogni situazione, quello che la determinazione ti salva sempre).
Oggi sono un leone e stanotte voglio un duello col fiume, coi suoi imprevisti, le sue piene, le sue secche improvvise, i suoi ruggiti, le sue violenze agli alberi, alle dune, a tutto quello che lo circonda.
La notte è passata veloce, il sonno pesante e compatto. La mattina dopo, bagnata da una pioggia delicata e calda, ho girato il paese con una bicicletta presa a prestito dalla segretaria dell’albergo. Era senza freni. In discesa, verso il Rio Negro e col soffio del Pampero alle spalle, ho planato al punto da non poter evitare di investire un piccione. Il Rio Negro attraversa tutto il paese, un po’ come il Po in Italia. Il suo corso è sinuoso, serpentino. Le coste frastagliate, selvagge, ampie come quelle che accompagnano l’oceano. E ricche di dune dove cresce erba già secca. Quando capita di mangiare una bistecca dura, si dice che arriva dalla costa del Rio in quanto le mucche si nutrono di erba di scarsa qualità. Intorno al grande fiume si formano aree paludose, desolanti e desolate, dove anche le zanzare, prima del mio arrivo, morivano di disperazione.
Intorno al Rio ci sono ampie chiazze di muschio verde brillante, alternato a pozze di acqua lasciate dai suoi ritiri. Acqua santa per gli animali che vi si ristorano anche nei periodi di secca. Non mancano cavalli vagabondi che si contendono l’abbeveraggio con le mucche locali. A volte i cavalli sono allo stato brado, a volte appartengono a gauchi, che li cavalcano con fierezza. Il gaucho sta alla pampa come il cow boy sta al far west. Son personaggi originali, veraci. Statici sulla loro sella, col portamento da principi, troneggiano guardando lontano e di sbieco, come i ballerini di tango. Sempre solitari e misteriosi, coi mantelli d’altri tempi, in un paese dove il giorno sembra non passare mai. Hanno l’odore di terra e fieno nelle mani, le unghie bordate di nero, residuo di fatica ancestrale. Puzza di sterco negli stivali e nel mantello, impregnato di umidità salmastra e di polvere che sembra cipria. ‘La vuelta de mate’ come rito quotidiano, la chitarra attorno al fuoco mentre le vacche riposano. E nella mente l’immagine di una donna che non c’è. Nelle narici il suo profumo che arriva da lontano assieme a un ricordo. Nelle dita, la voglia nervosa di intonare una serenata e farla arrivare oltre l’orizzonte rosso del tramonto, a quella ‘lei’ che non potrà mai seguirlo nei suoi vagabondaggi.
Arroyo Belizas. Oggi il viaggio è un impasto di sudore e polvere. E’ un pensiero incosciente mentre il mio sguardo si perde tra i boschi di ombué, alberi anarchici anche con se stessi. Loro hanno un ciclo di diciannove anni. A tempo scaduto, scelgono quando è il momento di lasciarsi morire oppure ricominciare da capo. Io mi sento un po’ così. Gli ombué combattono con alberi che invadono la loro anarchia. Lottano contro le coronille e vincono sempre; forse sono alberi prepotenti. O forse sono semplicemente forti, imponenti e fieri della loro volontà. Gli ombué stanno al bosco come i camion stanno alla strada. Tutti gli altri li temono, per quel loro atteggiamento vincente che non conosce la paura. Vicino al bosco di questi guerrieri senza tempo, c’è l’Arroyo Belizas, un fiume pescoso ma di piccole dimensioni. Quà, a due passi dalla costa atlantica di Cabo Polonio ci sono le dune bianche. Dalla parte opposta distese di verde e invasioni di eucalipti, allineati come altrettanti guerrieri, un po’ invasori. Nelle acque generose del fiume, specialmente in periodi di luna piena, i pescatori si appostano al tramonto per iniziare la pesca del ‘camaron’ un gambero che risale dal mare. Sulla laguna di Castillos splendono da lontano le lanterne appoggiate sull’acqua , che con la loro luce danno al luogo l’effetto di un posto incantato che ha a che fare con le fate o le sirene. Il camaron viene attratto dalla luce e la pesca si fa abbondante. La luna, a volte, li attrae anche fuori dall’acqua. Per osservare meglio lo spettacolo facciamo un giro in barca, lento, come vuole la tradizione del ‘sur’. Scivoliamo via lungo le sponde del fiume mentre è sempre più buio. La luna pian piano sostituisce il sole che si accascia lentamente dietro la Sierra. La grande Dea si leva dai canneti col suo colore giallo ocra. Quando il giallo si trasforma in pastello riesce ad illuminare le sagome dei pescatori ai bordi, e, più in là, quelle delle mucche al pascolo, come immagini di cartone ritagliate nel cielo. Brucano chine verso l’erba generosa idratata dall’ultima pioggia. Sono quasi immobili, in una specie di contemplazione. Icone sacre, nel santuario campestre che la natura offre in queste ore della mia primavera uruguaya. Sembra un dipinto in una tela blu cobalto, reso leggibile da Lei. La luna da sola domina la scena, che non è ripetibile a parole. Si può solo sentire, ascoltare le vibrazioni del suo silenzio e della sua luce, così orgogliosa che dimentica persino di esser solo un riflesso del sole.
“En primavera los suenos se vesten de colores…” . “Que necesitamos para crecer en el amor: compartir, perdonar, escuchar, dialogo, paciencia…”. Pensiero a ritroso…ricordando il merendero di Achar=Ascia. Per abbattere le malinconie della povertà, della desolazione del ‘campo.’..della pampa sconfinata. Là in quel piccolo nucleo di vite umane c’è una vitalità meravigliosa. Missione compiuta in un giorno. Visitato l’ambulatorio, preso appunti su quanto c’è già, quanto manca, quanto si sta facendo già e quanto c’è ancora da fare. Intanto i bambini continuano a mangiare dulce de leche…..le donne si inventano mestieri e producono cose che non comprerà mai nessuno. Curano la loro piccola serra di fiori che popoleranno solo la chiesa durante i matrimoni e il cimitero in occasione dei funerali.
Il parroco, padre Antonio, sarà sempre più il direttore di orchestra di anime a metà strada tra la voglia di fuggire e quella di restare. E la maggior parte di loro rimane, confortato dai colori della loro stessa allegria.
Dal museo precolombiano parole bellissime come queste, mi hanno fatto venire un altro attacco di ‘piel de gallina’: “el lenguaje del texil es un cuento de amor con palabras tejidas. Las mujeres tejen belleza, cancancio y dolor”. E ancora : “Si no fuera por la luna, no sabrìamos tejer”. (…”il linguaggio tessile è un canto d’amore con parole tessute. Le donne tessono bellezza, stanchezza e dolore…”Se non fosse per la luna, non sapremmo tessere…”
Così è stato il mio Uruguay. Un piccolo assaggio di America latina, di sud dolce e amaro. Un ricamo breve nella cartina geografica del mondo, tessuto con cura e mano leggera, fra bellezza, stanchezza e qualche lieve dolore. Dove la luna mi inseguiva, anche dietro le nuvole, per rispuntare di nuovo e illuminare il mio ottimismo notturno.